Le complessità della politica estera russa
Dove va la politica estera della federazione russa? Cosa ne pensano coloro che per mestiere riflettono e realizzano la diplomazia di Mosca? E soprattutto quali sono le aspettative dei suoi futuri rappresentanti? A queste domande tenta di rispondere lo studio The Last of the Offended: Russia’s First post-Putin Diplomats. Ricerca realizzata dalla studiosa estone, Kadri Liik, per conto dell’European Council on Foreign Relations. Dal titolo si può capire quale strada intenda seguire il lavoro. Gli ultimi offesi sono infatti 18 personalità, età compresa tra 20 e 45 anni, che in quanto attivi nel ministero degli Esteri, nel governo, impiegati in grandi aziende, accademici e rappresentanti dei media, si occupano in maniera professionale di relazioni internazionali. Settore questo che dal crollo dell’Unione sovietica è stato di competenza esclusiva di quadri cresciuti nel primo Stato socialista del mondo e formatisi alla sua ideologia. Persone per cui l’occidente era un modello da ammirare o una forza avversa cui resistere. Sempre comunque, come del resto avveniva da tre secoli a questa parte, fonte di idee e di pratiche da importare e assimilare. Sentimenti cui le ultime generazioni russe, tra cui il presidente Putin e il ministro degli Esteri Lavrov, avevano aggiunto la delusione per la mancata integrazione con l’Occidente vittorioso. Umori abbandonati delle ultime leve diplomatiche che, prive della precedente fissazione occidentale, si caratterizzano ora per realismo e pragmatismo. Atteggiamento più laico ma pur sempre venato dalla nostalgia per “la perdita di interesse e curiosità dell’Occidente verso la Russia”. Né “lealismo” putiniano, né “liberalismo in senso occidentale” caratterizzano questi ambienti, quanto piuttosto un forte scetticismo verso ogni ideologia. Un disincanto improntato a una forma di Realpolitik in cui l’Occidente è solo un “altro potere in un mondo freddo e complesso”. Sentimenti cresciuti durante l’era Putin, ma di cui lui non è la causa e che vivranno anche dopo il tramonto politico dell’attuale presidente.
Inoltre, mentre i padri della politica estera russa continuano a riferirsi all’Occidente come a un universo unico, i figli distinguono tra Stati Uniti ed Europa. Aggressivi verso i primi, concilianti verso la seconda. Due tendenze unite dall’idea che se verso Washington la competizione continuerà a essere dura, le future relazioni con Bruxelles potrebbero migliorare. L’apertura verso il vecchio continente non è guidata da condivisioni di valori e orientamenti quanto dalla constatazione che in futuro la logica delle relazioni mondiali sarà decisa dalla competizione tra grandi potenze e dai rapporti di forza tra esse. Uno scenario in cui Russia ed Europa da sole non occuperebbero né la prima né la seconda fascia del potere globale. Secondo quanto ribadisce l’autrice “non è possibile ritenere gli intervistati veri putiniani”. Eppure, come afferma uno di loro sostenendo di “non aver mai votato per lui”, l’Occidente deve capire che “l’eccezione è stata Eltsin non Putin” e che “l’ottimismo ideale degli anni ’90 non tornerà più”. Liik sottolinea come, soprattutto dall’annessione della Crimea e l’inizio delle operazioni militari russe in Siria, il ruolo del MAE di Mosca nella realizzazione della politica estera nazionale sia “molto meno centrale”. E se il gruppo degli intervistati, professionisti civili della politica estera, si è rivelato di relativamente facile accesso, va notato che si tratta di quadri meno coinvolti nell’elaborazione e realizzazione della politica estera federale. È un altro il gruppo, più difficile da indagare, che, attorno al presidente Putin, definisce le strategie del settore. Massima importanza, in quella che dal 2014 appare come la militarizzazione della politica estera russa hanno alti ufficiali della FFAA, quadri dei servizi segreti e strutture armate mercenarie. Sono Amministrazione presidenziale, Consiglio per la sicurezza nazionale e ministero della Difesa, ad avere l’ultima parola nelle strategie diplomatiche del Paese. Naturalmente non si tratta di intrecci nuovi. Se i conflitti tra le agenzie intergovernative esistono da sempre, altrettanto fanno i contrappesi istituzionali destinati a limitarli. Per esempio nella tradizione russa, al ministero Difesa e al suo proclamato uso miracolistico delle armi, il ministero degli Esteri è sempre voluto più guardingo. Una prudenza condivisa dai servizi di sicurezza. Equilibrio venuto meno nell’ultimo mandato della presidenza Putin, quando la personalizzazione del potere e iI venir meno dei contrappesi hanno dato vita a scenari in cui obiettivi politici e personali si confondono. E se i singoli attori competono tra loro, le trattative possono contraddirsi. Uno spettacolo mortificante per i diplomatici di professione, che non a caso non credono all’idea della superpotenza. Altrettanto questi ambienti non sono entusiasti della “svolta cinese” forzata dal Cremlino. Piuttosto si nota incertezza e sfiducia verso il potente vicino orientale. Cosi non ci si può meravigliare se la massima di Alessandro III - flotta ed esercito come i soli alleati della Russia -, da qualche tempo sia tornata a circolare. Altra certezza, come ha scritto Fedor Lukja’nov sul Kommersant, è che a differenza degli ultimi 30 anni, oggi non si può negare che “nulla si sa sulla direzione della storia”.
* Dottore di ricerca in Storia dell’Europa orientale e autore di Nel Cuore d’Europa, Textus 2019.
di Paolo Pombeni
di Francesco Cannatà *
di Francesco Domenico Capizzi *