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L'analisi del sabato. Il "doppio forno" di Renzi

Luca Tentoni * - 03.10.2015
Silvio Berlusconi

La tregua siglata fra Renzi e la minoranza del suo partito in occasione delle votazioni sulla riforma costituzionale rischia di rivelarsi fragile ed effimera. Elemento di stabilizzazione (per alcuni; per altri, di destabilizzazione) è il soggetto politico appena nato che appare sullo sfondo, quello guidato da Verdini. Gli ex forzisti sono entrati nella partita fra maggioranza e minoranza del Pd perchè hanno una consistenza numerica, a Palazzo Madama, capace di compensare a destra - seppure in parte - eventuali defezioni che la "coalizione per le riforme" (Pd, Ncd-Udc, altri minori) avrebbe potuto subire se non si fosse trovato l'accordo sulla "designazione popolare" dei nuovi senatori. Il punto politico, ora, è capire se e quanto l'ingresso del nuovo gruppo di Verdini nell'alleanza per approvare il ddl costituzionale preluda all'allargamento della maggioranza di governo e - in caso positivo - con quali ripercussioni politiche. Un conto, infatti, è una "coalizione per le riforme" che può essere teoricamente molto ampia (ai tempi del "patto del Nazareno" comprendeva anche Forza Italia); un altro conto, invece, è immaginare che questa alleanza finisca, prima o poi, per identificarsi con quella di sostegno al governo Renzi. Anche l'attuale Esecutivo nacque col voto di un perimetro più ampio del centrosinistra (anzi: senza Sel e col solo Pd alleato di gruppi di centrodestra) come una versione ridotta (senza Forza Italia) delle "grandi intese" che sostennero (gli "azzurri" soltanto fino alla condanna di Berlusconi) il governo guidato da Enrico Letta. Col passare del tempo, la convivenza fra il Pd e i centristi di Alfano e Casini ha portato ad un progressivo e costante avvicinamento di posizioni fra gli alleati di governo, fino al punto che oggi non è più irrealistico ipotizzare eventuali convergenze future anche sul piano elettorale locale e forse nazionale. Quello che, alla nascita, era dunque un governo di "piccole larghe intese", si avvia a diventare (non senza ripercussioni nel Ncd e in parte nella sinistra Pd) un Esecutivo sorretto da un accordo politico ben più solido, tutt'altro che "emergenziale". L'equilibrio che faticosamente si era raggiunto fino a poco tempo fa per tenere insieme una coalizione di governo così eterogenea rischia di essere messo a repentaglio da una nuova, ulteriore, apertura a destra, verso i verdiniani. La minoranza del Pd ha già manifestato la propria "incompatibilità" nei confronti del nuovo gruppo. Sulla riforma costituzionale, se commentatori e politici hanno saputo far bene di conto, i voti di Verdini saranno aggiuntivi e non determinanti. Sul resto, si vedrà. Per questo motivo c'è molta cautela nel dare per scontato - o almeno per imminente - l'ingresso in maggioranza del nuovo raggruppamento di ex "azzurri". Però, sul piano pratico, non si può disconoscere che l'occasione della disputa sulla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione ha offerto al Presidente del Consiglio l'occasione per "aprire un secondo forno" (quello verdiniano) senza doversi rivolgere di nuovo a Berlusconi, anzi spingendo ancora di più Forza Italia fuori dal vecchio "Patto" e verso un abbraccio con la Lega che ormai sembra inevitabile. È - fatte le dovute distinzioni - una riedizione adattata della partita per il Quirinale: sulla riforma costituzionale Renzi, alla fine, si è accordato con la minoranza del Pd e ha trascinato dalla sua parte un nutrito gruppo di centristi e settori di Forza Italia. Forse, se Berlusconi avesse offerto i voti del suo partito al Pd prima dell'uscita di Verdini, l'operazione del "secondo forno" sarebbe stata neutralizzata. Il Cavaliere avrebbe potuto sposare la tesi renziana, cioè rifiutare ogni concessione sull'eleggibilità o designazione popolare dei senatori, provocando quasi certamente l'uscita dall'Aula (e forse dal partito) della sinistra Pd. In quel caso, a Renzi sarebbe rimasta solo la scelta fra nuove "grandi intese" con FI o il ricorso ad elezioni anticipate col Consultellum (cioè con un sistema elettorale che lo avrebbe obbligato a realizzare dopo il voto l'alleanza con Berlusconi rifiutata prima dello scioglimento delle Camere). Sta di fatto che Verdini si è mosso per tempo, perciò adesso la situazione è diversa. Renzi sa di poter contare di volta in volta sulla maggioranza di governo o sul "secondo forno" (con i verdiniani al posto della minoranza Pd) per blindare l’Esecutivo anche in Senato. In questo schema, depotenzia un po' la forza dell'opposizione nel suo partito e rende non indispensabile l'apporto dei verdiniani. Semmai, attua una manovra centripeta che può permettere a Palazzo Chigi di decidere fino a quando, in quali condizioni e con quale struttura tenere in piedi il governo fino allo svolgimento del referendum sulla riforma costituzionale (2016-2017) per andare al voto anticipato nel 2017, oppure completare la legislatura (2018). Non è detto, però, che il "partito del 2018" abbia vinto: Renzi, con i numeri parlamentari di cui sembra disporre, appare in grado di decidere in piena autonomia - nell'eventualità di un successo dei sì al referendum confermativo - sul futuro della legislatura, delle alleanze e della modifica (o meno) della norma che oggi assegna al partito e non alla coalizione il premio dell'Italicum.

 

 

 

 

* Analista politico e studioso di sistemi elettorali

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