Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
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La verità in ritardo. L’assassinio del vescovo argentino Enrique Angelelli.

Claudio Ferlan - 08.07.2014
Enrique Angelelli

Se ne è scritto molto, non solo in Argentina: venerdì scorso, 4 luglio, il tribunale della città di La Rioja ha condannato all’ergastolo due ex militari, Luciano Benjamin Menéndez e Luis Fernando Estrella. Li ha riconosciuti quali mandanti (autores mediatos), dell’omicidio del vescovo di quella diocesi, Enrique Ángel Angelelli, e del ferimento di un suo assistente, il sacerdote Arturo Pinto. Si legge nel dispositivo della sentenza che i due ex-militari, stretti collaboratori del dittatore Videla sono stati “responsabili di un’azione premeditata, provocata ed eseguita nella cornice del terrorismo di Stato”.

 

I fatti


Era il 4 agosto 1976 quando la macchina sulla quale viaggiavano Angelelli e Pinto fu coinvolta in un incidente stradale, che a molti sembrò provocato. Angelelli non sopravvisse. Trentotto anni dopo, superando numerosi ostacoli, depistaggi e tentativi di insabbiamento la verità giudiziaria ha stabilito che fu omicidio: una tesi che a molti apparve chiara fin da subito. Il vescovo e il sacerdote stavano viaggiando verso La Rioja di rientro da Chamical, una cittadina della diocesi che aveva appena vissuto un grave fatto di sangue. Gabriel Longueville, missionario francese, e Carlos Murias, sacerdote argentino, erano stati sequestrati il 18 luglio 1976. Qualche giorno dopo i loro corpi furono ritrovati senza vita e con segni di tortura. Erano stati degli sconosciuti, si disse. Angelelli e Pinto però stavano indagando, e sapevano molte cose. Loro come i sacerdoti uccisi erano impegnati in prima linea nella difesa dei poveri e non avevano avuto timore a denunciarne lo sfruttamento levando la voce contro le ingiustizie perpetrate dal governo dittatoriale militare salito al potere dopo il colpo di stato del 24 marzo 1976.

 

Prima della sentenza


Con le enormi difficoltà proprie delle indagini sui crimini di regime, la giustizia argentina non si è arresa. Pare che uno dei momenti di svolta per la soluzione del processo contro Menéndez ed Estrella sia stata l’elezione di Bergoglio, che più volte nella sua veste di arcivescovo di Buenos Aires aveva ricordato Angelelli, definendolo “uomo di incontro e di periferia”. Due elementi simbolo del suo pontificato. Non a caso, chi lo conosce dai tempi d’Argentina, ritiene che proprio Angelelli sia uno dei massimi ispiratori della pastorale di Bergoglio. Francesco ha inviato all’attuale vescovo di La Rioja, Marcelo Daniel Colombo, due documenti. Una lettera nella quale Angelelli denunciava gli ostacoli posti dai militari alla realizzazione della missione della Chiesa. Era destinata all’allora nunzio pontificio, Pio Laghi (scomparso nel 2009), che negò sempre di averla ricevuta. Però quella lettera a Roma era arrivata e ciò non fa che aumentare l’inquietudine di fronte alla condotta tenuta dal nunzio durante gli anni della dittatura. La seconda è una relazione degli avvenimenti collegati alla morte di Longueville e Murias.

 

I commenti


Non si può certo dire che il verdetto abbia sorpreso nessuno. Ciò che invece colpisce sono le possibili conseguenze di quanto stabilito lo scorso 4 luglio: i magistrati hanno chiesto un supplemento d’indagine per altre venti persone sospettate di essere coinvolte nell’organizzazione del finto incidente. Tra di loro vi sono tre parenti stretti di Carlos Menem, presidente argentino tra 1989 e 1999: le dimensioni dell’intrigo di La Rioja sembrano non smettere mai di crescere.

 

Nei media argentini la notizia è stata riportata con grande evidenza e si aspetta con curiosità la lettura delle motivazioni della sentenza, attesa per il prossimo 12 settembre. I commenti dei lettori dei diversi quotidiani sono un interessante specchio delle reazioni dell’opinione pubblica. Al vescovo Colombo, che il giorno prima della pronuncia ha organizzato una lunga veglia, alcuni contestano che la Chiesa mai dovrebbe volere vendetta. Non è il rancore che ci muove, risponde Colombo, non è desiderio di vendetta, ma di giustizia. Quanto alle reazioni alla sentenza, tra i due estremi di uno sparuto gruppo di difensori dei due militari, le cui argomentazioni appaiono in verità debolissime e di un più nutrito partito che alla condanna unisce insulti e profonda rabbia, si colloca una maggioranza che si chiede dubbiosa se una condanna pronunciata trentotto anni dopo i fatti abbia senso. Ci sentiamo di dire di sì, eccome se ne ha. In Italia ben conosciamo i misteri giudiziari e sappiamo come il più limpido desiderio di verità abbia radici virtuose e rincorra l’obiettivo di avanzare nel percorso del vivere civile.