Vuoto in Libia
In Italia si guarda alla situazione della Libia con un doppio sentimento, derivante dalle immigrazioni: pietà e paura. Ma la questione è più complessa. Il problema centrale riguarda l’inesistenza di un governo libico capace di controllare ciò che avviene nel paese e l’oscuro avvenire che lo attende. Il vuoto di potere dovrebbe far riflettere. L’esperienza del “califfato” ISIS o quella dei guerriglieri di Boko Haram insegna. Ma i rischi dell’insediamento di un potere islamista in Libia sarebbero per l’Italia devastanti.
Il sen. Latorre afferma che i servizi segreti italiani in Libia sono i più efficienti. Questa efficienza dovrebbe portare a un risultato. Ma il problema non offre soluzioni trasparenti. Infatti dire oggi chi possa costituire un governo stabile in Libia è come affidarsi a un oroscopo. Una volta questo governo c’era. Il colonnello Gheddafi, dittatore mercuriale e teatrale, poteva non piacere; anzi piaceva a pochi: soprattutto non agli Stati Uniti. Ma aveva stabilito un rapporto decente con l’Italia: scambi petroliferi e commerciali, in cambio del controllo delle coste. L’emigrazione dalla Libia era episodica. Gheddafi e il suo harem giravano per la penisola accompagnati da molti applausi e da una certa supponente ironia. Poi gli “alleati” dell’Italia ritennero che fosse necessario esportare la democrazia in Libia (come già avevano fatto in Somalia, in Iraq e in Afghanistan). I risultati si vedono oggi bene.
In sintesi bisognerebbe decidere se esistono gruppi di islamici moderati, disponibili al negoziato e credibili come interlocutori oppure sperare che gruppi di militari, magari oggi fieramente ostili l’uno all’altro, guidati da un qualsiasi Khalifa Haftar o da un altro generale in gradi di coordinare un’operazione complessa, creino un governo militare, capace di ricostituire con la forza lo stato libico. Non c’è dubbio che nessuna delle due soluzioni sia estranea al processo di democratizzazione. Ma forse in Europa o negli Stati Uniti si potrebbe pensare ai processi storici nel corso dei quali le istituzioni democratiche si sono formate. Processi lunghi, spesso condizionati da qualche guerra, ma sempre caratterizzati dal lento formarsi di un ceto dirigente adatto a pensare all’insieme di un’area geografica come “nazione” o addirittura come “stato. Non sono sufficienti, in questi casi, le imposizioni dall’esterno. L’esempio del Medio Oriente, dove la Siria, il Libano, l’Iraq e la Transgiordania sono stati il frutto dell’improvvisazione o dei compromessi stabiliti dai negoziatori del primo dopoguerra, dimostra con eccezionale evidenza che la creazione di stati artificiali finisce per dar luogo a una serie di conflitti interni che portano alla guerra civile. Perciò non si dovrebbe dimenticare che anche la Libia fu una creazione artificiale del colonialismo italiano nel 1911-12, ristabilita con forza e crudeltà nei primi anni del fascismo. Dopo di allora il dominio del paese venne arbitrariamente affidato alla dinastia dei Senussi, solo perché questa assicurava una buona collaborazione con i dominatori del Mediterraneo (Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti); né si può trascurare il fatto che, come in Egitto, un primo passo verso l’abolizione di una dinastia priva di consenso venne compiuto dai militari. Del resto, il fatto che nei paesi in via di sviluppo i militari siano spesso la vera classe media, in attesa che si formi una classe media “civile”, è il sintomo più evidente dell’impossibilità di creare la democrazia senza che ne esistano le basi sociali. Pensare a paesi in piena transizione come ad altrettante oasi di democrazia è solo un’illusione teorica, che porta ai disastri. Decine di politologi hanno studiato questo dilemma. Il problema della Libia rientra in questi termini. L’Italia non può pensare di risolverlo da sola ma non può nemmeno auspicare che il vuoto odierno venga riempito da poteri incontrollabili. Diviene così necessario un rapido e strategico intervento della coalizione di paesi che intendono contrastare l’avanzata dell’islamismo e favorire la creazione di un regime con il quale si possano definire accordi credibili, credibilmente applicati.
* Ennio Di Nolfo, nato a Melegnano nel 1930, laureatosi a Pavia nel 1953, ha insegnato all’Università di Padova, alla Luiss e nella Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, dove oggi è professore emerito di Storia delle Relazioni internazionali.
di Ennio Di Nolfo *
di Lorenzo Ferrari *