La strana crisi del PD

Qualche stupore dovrebbe pur suscitarlo la strana crisi in cui si sta dibattendo il PD. Nei termini della vecchia politica si dovrebbe dire che “è in atto un dibattito”, solo che il senso di questo dibattito sfugge a chi non sia appassionato alle lotte di corrente interne a quel partito.
Il tema più controverso sembra essere quanto in fretta si debba fare il congresso: secondo alcuni al più presto altrimenti il partito si suicida, secondo altri occorre darsi un tempo congruo per costruire una riflessione, ma comunque prima delle prossime elezioni europee. Ogni tanto nei talk show compare questo o quel capo corrente che parla di cose incomprensibili, così come i TG si danno da fare per raccogliere qualche dichiarazione: a parte quelle scontate contro il governo in carica (se no che opposizione sarebbe?) si sente al più parlare di “garanzie” che gli uni dovrebbero dare agli altri.
In realtà la prima questione che un ingenuo osservatore esterno pensa dovrebbe essere affrontata è quella di decidere come produrre un programma politico in grado di ricostruire una base di consenso che è andata perduta. Sempre ingenuamente si crederebbe che fosse opportuno individuare un gruppo di persone non solo in grado di farlo, ma con la credibilità necessaria per imporre ai tumultuanti capi-fazione del partito di misurarsi con esso. Perché il problema non è così banale come potrebbe sembrare: i capi-fazione oggi vogliono essere considerati depositari di una capacità di leadership che impone di essere in grado di “dare la linea”, e sarebbero indeboliti se dovessero riconoscersi tributari della riflessione impostata da altri. Al tempo stesso essi non sono in grado di produrre quel tipo di programma politico su cui si può lavorare per ricostruire una base di consenso.
Qui va fatta una specificazione importante. Il consenso politico non è solo quello che banalmente si può ottenere dai militanti e neppure dalla più vasta platea degli elettori. E’ quella dimensione per cui la società nel suo complesso riconosce una parte politica come un elemento costitutivo e creativo della dialettica di governo. E’ la ricerca di questa dimensione che dovrebbe costituire l’impegno maggiore del gruppo dirigente del PD ed è quello che oggi il PD sta perdendo.
Intendiamoci: a parole sono d’accordo quasi tutti. Il segretario Martina si affanna a dire che nel partito c’è posto per tutti quelli che vogliono dare una mano, ma poi mette insieme un ufficio di segreteria che sembra uno di quelli della vecchia DC fatti col manuale Cencelli. E per di più per farsi anche dire dal cacicco pugliese Emiliano che gli ritira il suo uomo: alla faccia del remiamo tutti insieme.
La verità è che il PD è inchiodato dalla paura di perdere quel tesoretto del 18% di elettorato che tutto sommato tiene nei sondaggi e che viene ritenuto frutto del mix correntizio che attualmente lo anima. Questo porta al curioso risultato per cui i capi fazione lottano duramente fra di loro trasmettendo il chiaro messaggio di una federazione che sta insieme con la colla di quel tanto di posti e di potere che le è rimasto senza poter avere il coraggio di decidere davvero chi è dentro e chi è fuori dalla costruzione del nuovo partito necessario. La DC è rimasta inchiodata per decenni a questi dilemmi e aveva percentuali elettorali ben più robuste, ma alla fine il risultato è stata la sua dissoluzione. Forse il PD potrebbe trarre lezione e anziché illudersi di poter avere una riscossa elettorale rapida dovrebbe puntare a ricostruire gradualmente un consenso che nella prima fase non potrà essere che selettivo.
In fondo è quello che non si ha il coraggio di fare, perché la prospettiva è piuttosto quella del “rassemblement” come direbbero i francesi: vuoi quello di un ipotetico mondo “de sinistra” come predica Zingaretti, vuoi quello della altrettanto ipotetica rinascita del fronte progressista, che però adesso si chiamerebbe “repubblicano” perché non sono più tempi in cui si crede al progresso, che è quello che sogna Calenda. In questo pasticcio naviga il corpaccione di parlamentari e amministratori frutto del renzismo, sicché il loro ammaccato leader pensa di potere comunque regolare i conti in qualsiasi scontro interno al partito si possa mettere in piedi.
Perché in definitiva il congresso allo stato dei fatti è il tallone d’Achille di ogni ipotesi di strategia. Che cosa può mai essere il congresso se non la conta delle truppe che ogni capo fazione ha fidelizzato a sé nell’ultima stagione politica? Può esserci qualche modesto influsso esterno da parte degli opinion maker della stampa e della TV, ma anche qui non si va molto oltre il perimetro delle fazioni. Ci sarà da neutralizzare un po’ di veleni delle vecchie guardie rottamate che godono nel vedere le difficoltà dei loro rottamatori (che non furono solo Renzi, andrebbe detto). Troppo poco per pensare che il congresso possa essere il luogo da cui verrà lanciata la nuova identità necessaria ad un partito che voglia governare il paese non col vessillo dei vecchi slogan e tabù della sinistra che fu, ma con la progettualità di chi ha capito che bisogna essere credibili davanti al paese nel proporre non solo progetti di confronto con le difficoltà presenti, ma canali efficienti di selezione di nuove classi dirigenti e programmazione di percorsi istituzionali capaci di fronteggiare un passaggio storico ingarbugliato come è quello che viviamo.
di Paolo Pombeni
di Luigi Giorgi *