La stanchezza dell’Occidente nel “mondo nuovo”

Cosa sia necessario fare di fronte alla minaccia dell’ISIS appare, in fondo, abbastanza chiaro: combattere. Combattere una battaglia che, come spesso si dice, non è solo militare ma culturale, per “conquistare i cuori e le menti” e respingere un’ideologia portatrice di morte. Tuttavia si tratta anche di un confronto politico-militare, per il quale è necessario elaborare in tempi ristretti una strategia complessiva.
Molti osservatori nei mesi scorsi (Sergio Romano sul “Corriere”, Gianni Riotta su “La Stampa”) hanno richiamato in proposito il precedente della prima guerra del Golfo del 1990-‘91. Si tratta di vicende che sono state di recente ottimamente ricostruite da Ottavio Barié in Dalla guerra fredda alla grande crisi (Bologna, Il Mulino 2013): allora l’amministrazione USA di Bush padre riuscì a costruire un’ampia coalizione utilizzando l’ONU. Bush padre riuscì a riunire insieme Israele e Stati arabi; ad avere il sostegno dell’URSS, sia pure con qualche mal di pancia; ad ottenere perfino una sostanziale benevola neutralità dell’Iran. Oggi invece gli sforzi della comunità internazionale e dell’amministrazione Obama appaiono timidi e incerti. Sicuramente la situazione è ora per molti aspetti ben più complessa, come è stato evidenziato anche su questa testata; basti pensare, solo per citare un elemento, alla crescente ambiguità di un “alleato” dell’Occidente come l’Arabia Saudita. E’ inoltre valutazione condivisa che oggi gli USA paghino la stanchezza per la “sovraesposizione” del loro potere imperiale nello scorso decennio.
Credo però che anche un passaggio più profondo si sia consumato: oggi, rispetto ai primi anni Novanta, è al potere negli USA e in Occidente una nuova generazione. Senza voler esagerare la statura dei singoli personaggi, la generazione dei Bush padre, dei James Baker, dei Brent Scrowfort, aveva ancora il ricordo della seconda guerra mondiale e aveva preso sul serio il confronto della guerra fredda.
Oggi invece la generazione al potere è cresciuta nel “mondo nuovo” ben descritto proprio da Barié che, da allievo di Chabod, sa tenere insieme fatti della politica internazionale e più profondi mutamenti del clima ideale. Il “mondo nuovo” del post-guerra fredda ha infatti per Barié le sue radici negli anni Settanta, quando l’Occidente uscì dalla crisi del sistema di Bretton Woods stimolando la liberalizzazione dei movimenti di capitale. Questo ha dato il là alla globalizzazione che abbiamo imparato a conoscere dagli anni Novanta in avanti, con la prevalenza della finanza e delle grandi banche d’affari. In questo modo è stato salvato non solo il capitalismo occidentale, ma anche, nella sostanza, il benessere costruito negli anni postbellici in Occidente e, con questo, le stesse radici della democrazia in questa parte del mondo.
Questo “salvataggio” ha però avuto i suoi costi: la prevalenza nelle nostre società del ragionamento economico e “tecnico”, l’assunzione del criterio economico come parametro dominante di valore. Non è un caso insomma che, negli ultimi decenni, i migliori giovani usciti dalle Università siano stati assorbiti dai circuiti della finanza piuttosto che diventare insegnanti o che una scienza economica tutta formule e schemi astratti abbia avuto la meglio sulle discipline umanistiche.
Tra fine anni Sessanta e anni Settanta altri complessi fenomeni su cui non è qui possibile soffermarsi (uno per tutti, la “secolarizzazione”) hanno concorso a un processo di accentuata individualizzazione delle società occidentali. E’ questo processo che rende oggi più complesso concepire uno scopo per la vita che vada oltre le concrete esistenze individuali, che rende difficile affiancare all’irrinunciabile “libertà dei moderni” la “libertà degli antichi” con la sua dedizione al bene comune.
E forse questo qualcosa c’entra con l’attuale stanchezza delle società occidentali e delle loro leadership.
* Andrea Frangioni, studioso di storia contemporanea, è autore di Salvemini e la Grande guerra.
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di Andrea Frangioni *