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27 marzo 2024
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La rappresentazione conflittuale della vita

Francesco Provinciali * - 22.06.2019
Zygmunt Bauman

Siamo figli del presentismo asfissiante, un concetto sul quale ritorna spesso il presidente del CENSIS, Giuseppe De Rita, quando osserva che alla politica ma anche alle nostre elaborazioni mentali e ai comportamenti quotidiani, ai pensieri e alle azioni , mancano coesione e visione, siamo incapaci di conservare la memoria e di costruire una rappresentazione delle cose che vada oltre l’ovvietà, le abitudini, i luoghi comuni, la superficialità : che poi sarebbe a dire che nei coni d’ombra della nostra esistenza si nascondono l’ incoerenza e la capacità di guardare al futuro.

Eppure – nei corsi e ricorsi storici della vita individuale e collettiva – la ruota gira e ci riporta sempre ad un immaginario punto di partenza o di arrivo.

Siamo ad esempio ossessionati dall’idea di crescita e sviluppo: nell’epoca della modernità e del post-moderno – la descrizione migliore ci è stata data dalla concetto di “società liquida “ di Zygmunt Bauman -  ciò che conta è il principio di interesse: si fa ciò che produce immediati vantaggi, a costo di perdere di vista la lezione della tradizione, la capacità di soppesare e distinguere l’utile dal superfluo, senza avere l’accortezza di  parametrare l’immediato soddisfacimento di un bisogno con la sua durata temporale, la pulsione individuale con la spendibilità sociale, il vantaggio che possiamo ricavare da una scelta rispetto all’etica e al concetto di bene comune.

Questo ci fa perdere di vista la rappresentazione della gratuità del vivere: tutto deve produrre risultati pena la sua inutilità. Tutto deve essere monetizzabile e spendibile, destinato a vita breve per l’usura e il consumo come categorie antropologiche prevalenti nel nostro interfacciarci con la realtà.

Si pensi ad esempio alla dibattuta questione della tutela ambientale e della biodiversità, messe a rischio da comportamenti dissennati dell’uomo e non gestite dai governi nazionali a difesa della sostenibilità vitale nel pianeta rispetto a logiche commerciali e di profitto, di concorrenza e di prevalenza.

L’umanità – guidata da strateghi poco lungimiranti – marcia compatta verso l’estinzione delle specie viventi animali e vegetali, l’hanno scritto 150 scienziati per l’ONU in un corposo Rapporto di 1800 pagine.

Conta l’oggi, come se quella ruota si fosse fermata ad un punto di non ritorno mentre la precarietà prende il sopravvento, rimuove il passato e rende imperscrutabile il divenire.

Siamo riusciti persino ad espungere a poco a poco lo studio della geografia e della storia dalle scuole superiori: il passato non conta più, solo il presente serve, ci stiamo affidando ad un uso pervasivo delle nuove tecnologie senza accorgerci che ciò comporta un travaso dall’intero all’esterno della nostra intelligenza ma direi di più, della nostra stessa libertà, del renderci conto che tutto è passaggio, divenire, ‘panta rei’, che qualcosa va conservato dentro di noi affinché si preservi la nostra stessa identità.

Così come non importa sapere dove siamo, da dove veniamo, come il mondo è configurato nella rappresentazione mappale e nella localizzazione del reale: ci sono i navigatori satellitari, le guide turistiche, le cartine, i droni e questo ci basta. Tutto ci guida dal di fuori e quello che ci circonda risulta alla fin fine un qualcosa di indefinito e magmatico, possiamo ripetere gli errori della storia perché ciò che è accaduto prima non ci serve più mentre ci affidiamo a guide esterne per girovagare nel pianeta, cosmopoliti e globalizzati ma privi di radici e confusi, incerti.

Per questo, che lo si voglia e no, siamo suggestionati da una congerie di persuasori occulti mentre ondeggiamo tra Scilla e Cariddi alla ricerca di punti di riferimento e approdi che non troviamo, per evitare il naufragio.

Si vive di più e meglio, godiamo di una serie di opportunità un tempo impensabili ma non siamo capaci di progettare un percorso esistenziale di media lunga durata: tutto è parcellizzato, effimero, transeunte, intercambiabile, obsoleto, provvisorio.

Colpisce ad esempio la rappresentazione che una parte dei giovani della più recente generazione ha della vita: una sorta di parentesi indefinita e compressa, da affrontare ora con spavalderia ora con la consapevolezza – che si fa scelta – che può diventare una scommessa con se stessi, gli altri e il quotidiano. Il che evidenzia in primis le colpe degli adulti, le responsabilità della famiglia e della scuola.

La vita come sfida non porta risultati, può bruciarsi in una dimensione spazio-temporale effimera, crea antagonismi e polarizzazioni: o di qua o di là e tutto deve essere risolto molto in fretta nelle piccole micro-battaglie quotidiane, spesso pervase dalla noia, dagli istinti e dalle pulsioni, dal considerare nemico da combattere il nostro prossimo.

La realtà che vivono i nostri ragazzi è in genere ereditata: mancano loro pesi e contrappesi per valutare le fatiche e i sacrifici compiuti da chi li ha preceduti.

Crescono e di molto i diritti, si affievoliscono lentamente i doveri.

La politica afferma di avere a cuore i problemi della gente ma le manca di rispetto: perché riduce la propria ragion d’essere ad una continua, ininterrotta campagna elettorale, dove l’ansia anticipatoria dei risultati trasforma i sondaggi in strumenti intrusivi e di persecuzione.

La vita stessa diventa sondaggio, un ossimoro basato su algoritmi e manipolazioni.

Dobbiamo schierarci, essere con qualcuno se non “di” qualcuno, odiarci reciprocamente per compattarci appartati gli uni contro gli altri: è la politica del “contro” e non quella del “per”.

Ma se la famiglia, la scuola, la società non ci educano al confronto mite e pacato, se tutto diventa battaglia e fonte di odio vicendevole dove mai troveremo le ragioni e le speranze per dialogare e per costruire un mondo dove ciascuno possa ritagliarsi uno spazio vitale senza sconfinare nell’alveo dei diritti altrui?

Manca, vistosamente il concetto di “prossimità”, l’idea che in un mondo complicato e interconnesso, dove le relazioni ci rendono reciprocamente interdipendenti e influenzabili, ciò a cui si dovrebbe mirare – nella formazione e nell’istruzione ma anche in quella “lifelong education” che dura tutta la vita – è quella formazione del pensiero critico che può restituirci una dimensione più umana e meno antagonista se non belluina dell’esistere.

Oggi prevalgono visioni polarizzate e non ricomponibili della vita che muovono verso una deriva duale nelle relazioni con gli altri. Ci viene chiesto o scegliamo noi stessi (non so con quanta convinzione e con quali motivate ragioni) di essere di destra o di sinistra, fascisti o comunisti (questo va di moda negli sfottò provocatori), a favore o contro i migranti, pro o contro le unioni civili, i vaccini a scuola, i trafori sotto le montagne, l’Europa, i sovranismi, i nazionalismi, i localismi, la difesa dei confini, quella (più o meno legittima) personale, la castrazione chimica, l’uso della cannabis, la riapertura delle case chiuse, i tre gradi di giudizio, la separazione delle carriere dei magistrati, i blocchi navali, la chiusura dei porti, il finanziamento ai partiti, l’uso del grembiulino a scuola.

Tutto ci spinge a confliggere, dividerci, separarci mentre crescono i sentimenti negativi: invidia, egoismo, odio, rancore: tutto certificato dai rapporti ISTAT e CENSIS, anche se ce ne accorgiamo da soli.

Cosa significa tutto questo? Che la politica non è capace di trovare sintesi che favoriscano la sostenibilità, la coesione e la pace sociale.

 

 

 

 

* Ex dirigente ispettivo MIUR