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La politica post-emiliana

Paolo Pombeni - 27.11.2014
Matteo Renzi e Pierluigi Bersani

Come facilmente prevedibile, la politica sta già scontando i contraccolpi del risultato delle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Secondo copione molti interpretano l’eccezionale livello dell’astensione (quasi al 63%) tirando l’acqua al proprio mulino: chi per proclamare il declino irreversibile di questa o quella forza politica (FI, M5S), chi per celebrare il preludio di una vittoria totale futura (la Lega), chi per dire che c’è la prova provata che non ci si può mettere contro la CGIL (la minoranza PD), chi per dire che in fondo non è successo nessun terremoto distruttivo (Renzi & company). In realtà i segnali sono già stati registrati e la politica si sta muovendo tenendo conto di quel che è successo (o di quello che si ritiene possa essere successo).

Lo si è visto nella vicenda dell’approvazione parlamentare del cosiddetto Jobs Act, ma possiamo pensare che sia solo un assaggio di quel che succederà. Il comportamento parlamentare del PD è da questo punto di vista interessante. I riflettori si sono puntati sulla trentina di deputati che pubblicamente hanno negato il loro voto al provvedimento, sottolineando come questi abbiano esplicitamente attribuito la diminuzione di voti del loro partito ad una presunta diserzione delle urne legata al conflitto fra Renzi e la CGIL. Anche se è probabile che una parte dell’astensione sia ascrivibile ad un fenomeno di quel tipo, bisognerebbe andarci piano col concludere che queste astensioni possano automaticamente trasformarsi in voti a favore di un nuovo partito “veramente di sinistra”.

Chi ragiona così, sottovaluta il fatto che per elettori di quel tipo domenica 23 novembre astenersi era una scelta facile: in assenza di rischi per il partito del cuore (mancando alternative, la sconfitta del candidato PD era praticamente impossibile) si poteva prendersi il lusso di quella che Aldo Moro chiamò un tempo per qualcosa di simile “una libera uscita”. Se davvero avessero voluto “andare più a sinistra” potevano votare o per SEL (comunque alleata del PD) o per “L’altra Emilia” (che il Pd lo contestava in toto), entrambe sdraiate sulla politica della CGIL.

L’uscita di Rosy Bindi che butta lì la possibilità di creare un nuovo partito di sinistra, assomiglia alla minaccia che fu ventilata più volte nella storia della DC di una scissione (ora a destra, ora a sinistra) per creare un secondo partito cattolico. Lei dovrebbe averne memoria e sapere che poi non se ne fece mai nulla e che quando la DC franò, i partiti successori non furono mai in grado di raccoglierne l’eredità di consensi in modo significativo e finirono male.

Il fatto più interessante è che invece l’operazione di Renzi in Emilia Romagna ha raccolto alla Camera il primo risultato. Infatti non si è abbastanza notato che l’impostazione data al PD per quell’impresa è stata all’insegna di un grande riguardo usato a Bersani ed ai suoi nel gestire la successione a quello che era un suo uomo, cioè Vasco Errani (che, anche qui qualcuno l’avrà notato, è stato omaggiato da Renzi in modo particolare nel suo comizio a Bologna). Bene, come si è visto, sostanzialmente quella parte, incluso lo stesso ex segretario, ha votato a favore del Jobs Act (si lasci perdere la dichiarazione di facciata che lo si è fatto per disciplina di partito …).

A fronte di passaggi parlamentari molto difficili (legge di stabilità, legge elettorale, possibili elezioni del successore di Napolitano) Renzi ha bisogno di tenere insieme il partito, ma al tempo stesso i suoi avversari interni dell’ ex PCI (che sono politici professionali e non gente allevata nei talk show) hanno bisogno di non indebolirlo troppo, perché sanno benissimo che lui regge il ramo su cui sono seduti anche loro. Si delinea così una rischiosa convivenza in cui il rottamatore deve ridimensionarsi e i suoi avversari devono farselo venire a piacere, perché senza di lui possono solo perdere l’egemonia di cui grazie a questa leadership gode il partito che è anche il loro.

La vicenda emiliana dimostra anche che al momento il PD è in una posizione comunque di vantaggio. Infatti l’alternativa berlusconiana è inesistente e quella post-berlusconiana dei suoi ex delfini lo è anche di più; i grillini sembrano aver perso lo slancio vitale; la Lega ha ancora bisogno di tempo per riuscire eventualmente a diventare quel partito nazionale che può aspirare al governo.

A correre alle urne, al di là delle sceneggiate, hanno interesse in pochi, perché quel che è successo domenica 23 novembre ha dimostrato un’altra cosa: il voto è diventato più che mobile, non regge neppure più il tabù contro l’astensionismo come tradimento dei doveri civici. In questo contesto ogni tornata elettorale costituirà un’incognita e una politica debole non è certo nelle condizioni di buttarsi in avventure del genere, soprattutto in un quadro di crisi economica che continua e di fiato sul collo dell’Unione Europea che a sua volta ha alcune chiavi non secondarie per aprirci qualche spiraglio nella lotta alla recessione.

Questo se si mantiene in minimo di razionalità. In politica non è mai detto, ma ci sarebbe nonostante tutto da augurarselo.