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24 aprile 2024
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Gli archivi sono ancora un “bene culturale”?

Mauro Maggiorani * - 27.11.2014
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A inizio 2015 prenderà corpo la riforma del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo (Mibact), fortemente voluta dal ministro Franceschini ma, da tempo, all’ordine del giorno dell’agenda politica italiana: già il governo Letta aveva in effetti istituito una commissione di lavoro con il compito di produrre una prima bozza di riordino. Lo slancio riformatore che ora giunge a compimento ha motivazioni economiche più che politiche, poiché è il risultato delle norme che, dal 2012, hanno introdotto la spending review coinvolgendo tutti i dicasteri in un’azione di razionalizzazione che mira a tagliare del 20% gli uffici dirigenziali e del 10% la spesa di quelli non dirigenziali. Un’azione che avrebbe dovuto essere accompagnata dal ripensamento di ruoli, competenze e strutture, ma che invece sembra procedere attraverso tagli settoriali che colpiscono secondo una precisa logica: incentivare tutto ciò che può essere monetizzato. A reggere l’impianto è l’idea che i luoghi d’arte possano (e debbano) diventare “prodotti” commerciali nel mercato internazionale. A conferma di questa visione economicistica della gestione del patrimonio culturale (che, beninteso, non è di per sé negativa se accompagnata dalla capacità di tutelare tale ricchezza) vi è la creazione di 18 Istituti museali dotati di una speciale autonomia, già ridenominati dalla stampa “supermusei” (cfr. “Il Sole 24 Ore” del 23/11/2014): fra questi, per citarne alcuni, gli Uffizi, la Reggia di Caserta, Paestum, la Galleria Borghese. Si investe, insomma, sui musei che diventano il cardine di una nuova concezione del Ministero. Ma, poiché le risorse sono limitate, questa scelta finisce con il penalizzare altri settori culturali. Ecco perché quando, nell’estate scorsa, una prima bozza della riforma fece la sua comparsa, venne fatta bersaglio di critiche dal mondo delle biblioteche e degli archivi usciti particolarmente malconci dall’impianto normativo. Non vi fu, certo, una levata di scudi quanto una motivata e civile richiesta di ascolto da parte dei diretti interessati (l’Associazione nazionale archivistica italiana e l’Associazione italiana biblioteche in primis); tiepida fu, invece, la reazione tra i principali utilizzatori degli archivi: gli storici. Tra i primi (e pochi) a intervenire vi fu la presidente della Società italiana delle storiche, Isabelle Chabot, che lamentò l’indebolimento delle strutture archivistiche causata dalla riforma. A far uscire momentaneamente la discussione dai confini specialistici è stata la pubblicazione su “La Stampa” dell’articolo di Giovanni De Luna La riforma dei Beni culturali e la memoria “usa e getta” (25/7/2014). L’articolo ruotava attorno all’idea che la funzione da “tour operator” attribuita ai musei penalizzasse i processi di gestione e conservazione del patrimonio culturale, che andava invece tutelato “per ragioni che c’entrano poco con la sua capacità di generare profitti e molto con quelle del patto di memoria su cui si fonda lo spazio pubblico della nostra cittadinanza”. L’analisi di De Luna – contraria anche all’indebolimento della rete delle Soprintendenze archivistiche (posizione, questa, condivisa dai 4000 cittadini firmatari di una petizione online sull’argomento), quale ente fondamentale per la tutela degli archivi non statali – giungeva alla conclusione che senza gli archivi non restava che una storia “«usa e getta», volatile, senza spessore, da consumarsi in un sentimento esotico del passato perfettamente in linea con le ragioni «turistiche» della riforma”. Alle critiche di De Luna erano seguite, sempre su “La Stampa”, le rassicurazioni del ministro (Gli archivi non saranno penalizzati, 26/11/2014) secondo cui “il sistema degli archivi rappresenta un ambito di enorme valore e potenzialità, uno strumento fondamentale per conservare la memoria del Paese, alimentare lo studio e la ricerca, nonché promuovere la conoscenza e lo sviluppo della cultura”.

Inquadrato in tal modo il tema e le posizioni in campo, occorre sottolineare almeno due dati: che una riforma ampia e coraggiosa del Mibact è senza dubbio necessaria, per rendere efficaci le strutture e semplificarne le articolazioni; ciò che, invece, va delineandosi è una proposta che indebolisce un particolare settore già provato da anni di tagli e mancate assunzioni. Non a caso un recente comunicato dell’Anai (24 novembre 2014) critica il decreto proprio per la “drastica ulteriore riduzione di risorse dopo anni di disinvestimento, in un settore dove bisognerebbe investire massicciamente per salvare e valorizzare un patrimonio unico al mondo”. In conclusione: se la riforma non cambia, archivi e biblioteche subiranno un taglio superiore al 40% nel caso dei primi e addirittura del 50% per le seconde. Prenderanno inoltre forma soluzioni confuse, con unificazioni di sedi, e fusione di compiti prima divisi tra Archivi di stato e Soprintendenze. Tra i casi eclatanti vi sono le situazioni di Bologna o di Torino (prima capitale dell’Italia unificata, con 13 secoli di accumulo documentario): qui, per esempio, si prefigura la creazione di una sorta di “super-dirigente” chiamato a dirigere un Archivio organizzato su due sedi e con una documentazione che copre 80 chilometri di scaffali e una Soprintendenza che tutela 1200 archivi comunali oltre a una fitta rete di altri archivi pubblici e privati. Poco comprensibile anche l’aggregazione di alcune Soprintendenze archivistiche che, in alcuni casi giungono a operare su più regioni (anche tre, come del caso del Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia); le conseguenze sull'efficacia della tutela sugli archivi non statali in queste situazioni è facile da immaginare. Nel contempo, mentre si taglia in periferia, il centro e soprattutto le direzioni amministrative vengono rafforzate, inclusi gli uffici di diretta collaborazione del Ministro.

Alla luce di tutto ciò viene da domandarsi se gli archivi possano ancora essere considerati un “bene culturale” (domanda che si pone, provocatoriamente e non a caso, la stessa Anai); quale che sia la risposta, di certo è un brutto segnale per la cultura in Italia e soprattutto un messaggio scoraggiante per chi in questi settori lavora con dedizione.

 

 

 

* Professore a contratto dell'Università di Bologna e funzionario della Soprintendenza archivistica per l'Emilia-Romagna