La politica dell’immaginario
Superata la boa del varo della legge finanziaria, arrivano al pettine tutti i nodi di una politica che è un incredibile impasto di immaginario e cinismo. Difficile che potesse andare diversamente.
I Cinque Stelle si misurano con la differenza siderale che passa fra una politica da rappresentare su un palcoscenico, reale, mediatico o digitale che sia, ed una da realizzare nel concreto delle situazioni storiche. Un po’ di cultura non guasterebbe, ma se non c’è bisogna limitarsi a prenderne atto. Quasi tutte le proposte dei pentastellati hanno in mente un mondo immaginario in cui basta volere le cose buone (o presunte tali) perché possano dare a cascata buoni frutti. L’idea che la natura umana sia un po’ più complicata non li sfiora, al massimo prevedono pene severissime per chi si permettesse di non comportarsi secondo la loro visione. Che poi queste pene, sempre per via del principio di realtà, non solo siano difficili da applicare, ma anche poco dissuasive non importa. Avessero letto a scuola “I Promessi Sposi” saprebbero come minimo che esiste il precedente delle “grida” seicentesche su cui opportunamente attirava l’attenzione il Manzoni.
Il massimo livello dell’immaginario si è raggiunto con la proposta di riforma costituzionale per l’introduzione di un referendum propositivo senza quorum. Il ministro Fraccaro, che si fregia di essere deputato ad introdurre la democrazia diretta, ne ha fatto un discreto pasticcetto. Immaginarsi che i cittadini abbiano il tempo e le competenze per elaborare sensate proposte di riforme che non possono trovare un canale di accesso al dibattito parlamentare è utopistico nel senso tecnico del termine. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la materia dello scrivere disegni di legge sa che non è impresa facile neppure per i professionisti: occorre dominare la legislazione precedente, altrimenti si creano intrecci perversi con le normative esistenti, sapere trovare il modo di indicare le coperture finanziarie per le spese che deriveranno dalla legge, maneggiare in modo appropriato la terminologia (ogni termine usato a vanvera sarà un appiglio per infiniti contenziosi interpretativi e legali).
Dunque chiunque usi un minimo di attenzione alla realtà capisce che i cittadini potranno con successo usare lo strumento del referendum propositivo solo se dei “tecnici” lavoreranno a costruirglielo. In parole povere, si tratta di mettere in mano a lobby di “tecnici” la possibilità di inserirsi costantemente nella dialettica politica. Certo poi queste lobby dovranno trovare 500mila firme per rendere operativa la loro proposta trasformandola in un referendum, ma in tempi di social media, talk show e quant’altro non è che quella sia una soglia particolarmente ardua da raggiungere, solo che si disponga della demagogia necessaria. Non solo da noi, ma anche in Francia e altrove abbiamo visto che si fondano partiti e si mobilitano piazze che raggiungono e talora anche superano di molto quelle soglie.
Vogliamo anche considerare la bizzarra idea che se poi il parlamento recepisse in anticipo parzialmente il tema proposto da un referendum, ma con una legge che non ricalca in pieno quanto messo in campo da chi l’aveva promosso, si dovrebbe chiedere agli elettori di votare se preferiscono la legge parlamentare o il testo dei referendari? Qui non si tratta solo di svilire la democrazia rappresentativa, ma di sfondare la diga che difende la sfera delle decisioni politiche dagli impulsi delle piazze. Infatti non c’è solo il caso, già di per sé preoccupante, di cosa accadrebbe nel caso di un voto che rigettasse la legge elaborata dal parlamento in carica: in un paese come il nostro dove gli equilibri politici vanno in crisi ad ogni elezione amministrativa anche parziale c’è da presumere che quell’evento darebbe quantomeno uno scossone al nostro sistema. Ciò avverrebbe anche nel caso di una vittoria, per così dire, della proposta parlamentare, perché comunque resterebbe sul terreno una querelle infinita da parte dei perdenti.
Soprattutto in ogni caso il nostro sistema sarebbe continuamente preda di un gioco al massacro, perché tutti gli “agitatori” di cui il paese abbonda sarebbero attirati a buttarsi nell’avventura di avviare “referendum propositivi” sulle più disparate questioni: si tenga conto che al momento non c’è neppure un elenco delle materie per cui la procedura sarebbe ammissibile, ma poi anche se quell’elenco si facesse sarebbe facilmente aggirabile.
La questione del quorum per la validità del referendum è la difesa minima necessaria. In mancanza di questo veramente ogni agitatore potrebbe scommettere sul diffuso astensionismo dalla partecipazione politica che affligge il nostro sistema: “provarci” diventerebbe allettante, il che significherebbe vivere una fase di continue zuffe politiche. Vorremmo ricordare che solo la barriera del quorum (allora troppo alto, questo è vero) ha messo fine a quell’inflazione referendaria che abbiamo vissuto negli anni Ottanta del secolo scorso. Oggi torneremmo in un contesto molto più problematico in quel vortice di delegittimazione del sistema che non è che ci abbia consegnato risultati molto brillanti.
È sperabile che la complessità dell’iter per l’approvazione della riforma proposta dal ministro Fraccaro la faccia naufragare: richiede una legge costituzionale con quattro letture nelle due Camere, dunque con tempi sufficientemente lunghi perché si spenga questa ondata di esaltazione della politica dell’immaginario. Infatti nel corso del tempo si vedrà che abortiranno le molte iniziative e leggi che sono nate da questa infatuazione per realizzare un “cambiamento” che suppone un mondo che non esiste. Non è però una gran consolazione, perché ciò avverrà comunque lasciando sul campo un bel cumulo di macerie.
di Paolo Pombeni
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