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L’ora difficile dell’Europa fra pandemia e globalizzazione

Francesco Cannatà * - 09.05.2020
Globalizzazione

Frontiere, globalizzazione, debito. Il Coronavirus ha rimesso con forza in primo piano le questioni che in Europa da oltre un decennio dividono l’opinione pubblica. Da questa crisi gli europei ne usciranno mortalmente disuniti? Sarà ancora possibile pensare il continente in termini comuni in modo da contare negli affari mondiali? Tutti gli Stati membri condividono questo obiettivo ? Per restare all’attualità, gli Stati dell’eurozona hanno disperatamente bisogno, se pur in modi differenti, di fondi per finanziare le misure anti pandemia. Finora le molteplici crisi vissute dal continente hanno avuto denominatori comuni. Di qualsiasi cosa si tratti: banche, debito sovrano, immigrazione, rifugiati, sicurezza oppure, come ora, l’epidemia, l’UE agisce con grandi difficoltà. In ogni dibattito i singoli Stati prendono posizioni differenti. Alla base di questa disunione vi è quello che appare sempre più come il peccato originale dell’Unione. L’UE non riesce a darsi legami di solidarietà e legittimità paragonabili a quelli dello Stato nazionale. Nel suo modello ideal-tipico, lo Stato nazionale ha dato vita a comunità in cui decisioni anche gravose della maggioranza sono state normalmente accettate dalla minoranza in quanto da questa ritenute legittime. Altrettanto è successo con la solidarietà economica. Distribuzione e trasferimenti di reddito sono stati condivisi dall’insieme della cittadinanza poiché valutati affidabili e vantaggiosi per l’intera collettività. La mancanza di queste virtù, difetto quasi insignificante nell’Europa a 6, ha sviluppato lacune sempre maggiori e più evidenti nello sviluppo a 28-27 membri.
Allargamento a est, unione monetaria, spazio di Schengen, immigrazione. I momenti cruciali del processo continentale sono avvenuti  sotto la pressione dell’emergenza. Una sorta di stato d’eccezione che ha messo in secondo piano l’importanza del principio democratico. Cosicché la loro fonte di legittimità è stata ricondotta al puro rispetto delle procedure.

Separazione degli interessi, differenziazioni politico-culturali, contrapposizione tra esperienze storiche: queste le fragilità da sempre presenti nella costruzione europea ma che soprattutto nella sua seconda fase diventano meno governabili evidenziando cosi la fragilità di legittimità e solidarietà del progetto. Con la conseguenza che da un certo punto in poi, i passi in avanti verso una maggiore coesione inizieranno a scalfire il sentimento della tradizione collettiva europea, radicata nella memoria di inizi comuni. È a questo punto che i tentativi di superare le differenze tra gli Stati si riducono all’idea che l’aumento del livello di integrazione appianerà automaticamente le diversità. Un approccio presente anche nel progetto di valuta unica: l’introduzione dell’euro porta il convincimento che la nuova moneta spingerà i paesi membri allo stesso livello di competitività. La volontà di superare le molteplici eterogeneità presenti nell’Unione si trasforma prima nella loro sottovalutazione per diventare infine l’illusione che si sarebbero risolte da sole. Questo il principio implicito di tutte le recenti fasi dell’allargamento. Ogni conquista comportava un accumulo di danni collaterali che i promotori del processo di integrazione non prendevano in considerazione. Il risultato: la nascita di una istituzione che nella propria avanzata segue tecniche difficilmente influenzabili con scelte popolari.

 

Con la globalizzazione e l’indebolimento delle frontiere parte della popolazione mondiale ha creduto di essere alla mercé degli eventi. A queste forme di insicurezza planetaria si sono aggiunte, nei paesi sviluppati, ansie tecnologiche e ambientali.  Il rilancio del regionalismo ha fatto sperare nel controllo queste paure. L’UE, il caso di maggior successo di una tecnica d’organizzazione transazionale del territorio, non è riuscita a far fronte alle difficoltà del nuovo mondo poiché la politica è stata accantonata a favore della tecnica. I cittadini non sono riusciti a identificarsi nella nuova organizzazione territoriale, l’integrazione delle società europee in un insieme omogeneo si è bloccata.

È su questo sentimento di immobilismo che avanzano rivalutazione delle frontiere, rinascita dello Stato-nazione e affermazione del nazionalismo populista. Tre, differenti, fenomeni globali che hanno però colpito soprattutto il progetto europeo. La prova è arrivata con la campagna elettorale di Trump. Il nazionalismo ha gonfiato un affannato dibattito sovranista in un occidente minacciato dalla perdita delle proprie capacità industriali.
Nelle imprese, le vere grandi vincitrici della globalizzazione con la loro capacità di mettere in concorrenza aziende e forza lavoro mondiali, la guerra commerciale ha creato barriere e inquietudini. Anche loro scoprivano l’altra faccia della medaglia: di fronte a strutture statali potenti e bene organizzate l’interdipendenza poteva diventare un pericolo.  Il caso dell’azienda tedesca per la produzione di robot Kuka, una delle eccellenze mondiali del settore, è un caso di scuola per capire i modi strategici e di lungo respiro con cui si comportano gli investitori di grandi potenze quando hanno partecipazioni in strutture estere. Già prima del caso Kuka Berlino era l’obiettivo principale delle mire di Pechino. Secondo il network mondiale di servizi di consulenza Ernst & Young, nella prima metà del 2016 il valore delle acquisizioni cinesi in Germania era di 11 miliardi di euro. Più della somma di tutti gli anni precedenti. Dal 2015 e fino a quel momento, i dati di E&Y affermano la Germania aveva perso il controllo di 76 compagnie. 

  
Ai limiti di un modello basato su deregolamentazione degli scambi e totale libertà di movimento si è aggiunto il Coronavirus. Non si può non notare come il paese che più di tutti ha tratto vantaggi dalla globalizzazione estrema degli ultime tre decenni, la Cina, non abbia però applicato fino il fondo quel modello. Pechino non ha mai aperto completamente la propria economia, ha continuato a pilotare il tasso di cambio della propria moneta e a regolare il flusso dei capitali internazionali. Nell’Impero di mezzo la proprietà intellettuale è debolmente tutelata e gran parte della politica industriale è statale. La Cina si è arricchita portando avanti una forma particolare di globalizzazione. L’esempio, una miscela di mercato e libero commercio e intervento statale, fino a un certo punto è stato seguito da Corea del sud, Giappone, Taiwan.
Anche l’Europa ha realizzato una forma originale di globalizzazione. Libero commercio limitato a un territorio relativamente modesto. La pandemia metterà in crisi questo modello? Di certo il Coronavirus rafforzerà il trend innescato dalla crisi del 2008: trasformazioni tecnologiche, diminuzione del valore delle catene globali, minore slancio del commercio internazionale, indebolimento del flusso dei capitali internazionali. Se a ciò si aggiunge l’oscillante protezionismo di Trump si capisce come l’Europa, i paesi dell’Unione monetaria, si trovi di fronte a problemi strutturali. Se vuole davvero difendere mercato interno, moneta comune e propri asset industriali, l’UE dovrà crescere politicamente e fiscalmente. Senza dimenticare l’importanza dello Stato sociale. Gli scossoni economico-finanziari che si susseguono dal 2008 hanno dimostrato che economie molto aperte sono più fragili di fronte a shock esterni. In questi casi l’esistenza dello Stato sociale rappresenta un frangiflutti. La presenza di una efficace protezione sociale facilita inoltre il consenso popolare verso l’apertura economica. Per Dani Rodrik, docente di Economia politica internazionale ad Harvard, “una sana globalizzazione funziona solo se è affiancata da sani e robusti Stati nazionali”. Cosa che è mancata negli ultimi decenni. “Il libero commercio ha oscurato la solidarietà sociale e le resistenze istituzionali interne alle nazioni”.

 

La pandemia cambierà la politica commerciale dell’UE? Se l’Europa prende coscienza degli effetti devastatori, in alcuni settori, del libero scambio, saprà trovare dei rimedi? Per farlo dovrà tenere conto della volontà dei popoli di poter decidere. Quale forma istituzionale dovrà allora caratterizzare l’Europa? Se lo Stato moderno si contrassegna dall’avere un popolo e un territorio sul quale esercitare la sovranità, l’Europa in cui gli Stati hanno in parte ceduto sovranità, in parte questa viene esercitata in comune, potrà mai essere uno Stato?

Nell’età moderna l’Europa nasce come uno spazio di esperienze conflittuali con capacità di agire ordinando. Nei futuri processi di omogeneizzazione associati allo sviluppo di questi territori converrà dunque far prova di prudenza. Non solo appianare ma tener conto delle loro eterogeneità. Se gli intrecci transfrontalieri metteranno fuori gioco il principio territoriale, i diritti di sovranità diverranno ingestibili. In costruzioni istituzionali a più livelli perdite di potere e aumento di sovranità saranno ugualmente possibili. Per l’UE inizia il momento più delicato della propria storia.

 
 
 
 
 * Dottore di ricerca in Storia dell’Europa orientale e autore di Nel Cuore d’Europa, Textus 2019.