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“Siamo, dunque pensiamoci”

Massimo Nava * - 09.05.2020
Contagion

“Cogito, ergo sum”, penso dunque sono, diceva Cartesio. Proviamo a rovesciare la sentenza al tempo del coronavirus: sono, dunque penso. Il filosofo francese intendeva dimostrare che la possibilità di pensare, e di «pensarsi» come individuo, offrisse la certezza assoluta, il principio basilare, dell’esistenza umana. Se esistiamo come esseri pensanti, è dunque scontata la capacità di pensare. E da qui discende la capacità di utilizzare le potenzialità della mente e finalizzarle al bene individuale. Ma se entrano in gioco l’etica, la responsabilità, l’imperativo kantiano di agire per il bene, le potenzialità della mente dovrebbero essere finalizzate anche al bene collettivo.

L’epidemia che stiamo affrontando ci dice che Cartesio e Kant hanno sempre più argomenti in comune. (Il lettore perdonerà la sintesi superficiale di studi liceali e universitari), in quanto bene individuale e bene collettivo sono sempre meno distanti, a prescindere da valutazioni politiche o ideologica sul sistema e sul modello di società in cui si vive.

Continuiamo ovviamente a pensarci come individui singoli, ma esistiamo sempre meno come individui separati dagli altri. Il confinamento in un certo senso ci ha avvicinato: sentiamo un comune destino, ci “vediamo” più spesso in gruppo, sui social e grazie alle nuove tecnologie dialoghiamo a distanze planetarie, facciamo le cose più normali e più banali, come fare la spesa, con un rituale di gesti e precauzioni comuni. La “mascherina” obbligatoria ci protegge, ma rende uguali sorrisi, espressioni, bocche, comprese quelle liftate, in tutto il mondo.

E’ vero che nella vita normale, ogni società è regolata da norme e leggi che tutti siamo tenuti a rispettare, ma l’epidemia ha esteso la normativa alle libertà individuali e alla possibilità di movimento, di fatto senza eccezione. Tanto è vero che appunto si discute di libertà costituzionali condizionate da un’idea superiore di bene comune, la salute.

 La globalizzazione dei mercati e dell’informazione mai come ora va di pari passo con la globalizzazione del rischio e, in parte, con la globalizzazione delle decisioni politiche. È vero che ogni governo ha agito secondo autonome valutazioni, ma è anche vero che le indicazioni di esperti e di organizzazioni internazionali come l’OMS e la pressione consapevole delle opinioni pubbliche hanno di fatto imposto decisioni molto simili, addirittura secondo meccanismi collettivi di imitazione, come si è visto nel caso delle zone rosse applicata dalla Cina all’Australia.

A differenza di epidemie del passato, tragiche, ma comunque circoscritte, il coronavirus ha assunto le caratteristiche di epidemia globale, ha globalizzato il rischio, con conseguenze economiche, sociali e sanitarie globali. Il virus non è affatto democratico se osserviamo le classi sociali più colpite, i milioni di nuovi poveri, la diversa capacità di risposta delle strutture sanitarie da Paese a Paese e da regione a regione all’interno dello stesso Paese. Ma il virus è democratico come emergenza globale, in quanto ha sostanzialmente abbattuto il confine fra bene individuale e bene (o beni) collettivi. Fino a quanto si sentiva parlare di riscaldamento globale, non avvertivamo la paura quotidiana di morire. Al tempo del corona virus, salute individuale e salute collettiva hanno perso la distinzione, il confine, la discrezionalità: l’ambiente, la natura, l’uso delle risorse per difenderci dai rischi, la necessità e la responsabilità di «pensare» un modello di sviluppo sostenibile non sono più argomenti di convegni o di ristrette cerchie  culturali di attivisti più sensibili. Sono la scommessa «pensante» dell’umanità. Ed è quindi diventato impossibile non « pensarsi » come collettività. Non soltanto per ragioni etiche, kantiane o spirituali, («Nessuno si salva da solo», come ha detto Papa Francesco), ma per ragioni di sopravvivenza globale.

Al tempo della peste di Firenze, Boccaccio scrisse il Decameron, immaginando che dieci ragazzi e ragazze si chiudessero in una villa per sfuggire all’epidemia e favoleggiassero di come sarebbe il mondo in futuro. La Rinascenza fu la tappa successiva di un’umanità che si era ridotta di un terzo, ma che aveva sviluppato la capacità di ricostruirsi. Quindi, di ripensarsi.

Oggi, come i ragazzi di Boccaccio, ci chiudiamo in casa e immaginiamo il futuro attraverso l’informazione globale, ma anche con Netflix, con i film catastrofici o premonitori (e non memorizzati né pensati) come “Contagion”, in cui tutto era già stato detto e scritto a proposito di rischio globale “democratico”.

“Sono, dunque penso”, significa pensare l’uomo globalizzato e il suo sviluppo umano, avere la consapevolezza che salute, istruzione, ambiente, risorse naturali sono beni collettivi e che i “mali” sono altrettanto collettivamente distribuiti, anche se può variare la gerarchia di chi ne paga temporalmente il prezzo più alto. E’ questo il nuovo imperativo categorico, la “positività” umanitaria dell’epidemia.

La salute non è più pensabile come bene individuale, ma come bene collettivo, poiché tutti paghiamo le conseguenze della malattia, indipendentemente dal fatto di essere contagiati, guariti o al sicuro. E come si è visto, non hanno senso le distinzioni fra comportamenti individuali e collettivi, in quanto ogni comportamento individuale può condizionare la salute di altri individui in modo esponenziale. “Sono, dunque penso”, significa dunque, “siamo, pensiamoci”, come umanità.

 

 

 

 

* Giornalista e scrittore