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L’Italia e il vento europeo

Paolo Pombeni - 29.09.2015
Scandalo Volkswagen

Mentre si è momentaneamente placato il dibattito-scontro sulla riforma del senato (ma riprenderà, statene certi), sarebbe da valutare l’attuale posizione del nostro paese nel contesto europeo. Non è solo questione dei suoi rapporti diciamo così istituzionali con l’Unione sulla questione migranti come su quella della legge di stabilità, ma si tratta del più ampio problema di come le classi dirigenti italiane vogliano rapportarsi ai venti di inquietudine che scuotono il vecchio continente.

Proviamo ad elencare alcune recenti questioni che sono arrivate sul tappeto. Dapprima c’è stato l’esito della crisi greca con la riconferma della leadership di Tsipras a cui ha fatto da controcanto la salita di Jeremy Corbyn alla leadership del Labour Party in Gran Bretagna. Due eventi che sembravano spingere in direzioni opposte quanto ad interpretazioni su come deve o dovrebbe muoversi oggi una sinistra politica. Poi abbiamo avuto la vittoria in Catalogna degli indipendentisti (vittoria piuttosto risicata in verità), evento che ha riproposto il tema delle tensioni scissioniste che albergano all’interno dei vecchi stati nazionali. Infine, quasi in contemporanea, la presa di distanza del governo italiano dalle operazioni francesi nella guerra contro l’Isis. Il tutto per non parlare dei riflessi che avrà la questione Volkswagen (al di là degli aspetti economici su cui interverranno i nostri redattori competenti in materia) su quella che sembrava, dopo gli interventi di Merkel sulla politica per i profughi,  una ritrovata leadership della Repubblica Federale Tedesca come “potenza civile” che aspira a guidare la nuova Europa.

Si tratta certamente di eventi non omogenei e assai difficili da mettere in relazione tra loro in maniera appropriata. Si tratta però del ripresentarsi di sintomi della crisi di una serie di punti di riferimento su cui pure si era fondato quello che aspirava ad essere un rinnovato “concerto europeo” (per riprendere la famosa espressione dei tempi successivi al Congresso di Vienna).

Il primo degli eventi che abbiamo elencato mette in questione non tanto cosa sia veramente la sinistra (che in sé è una domanda paragonabile a quella famosa sul sesso degli angeli), ma il tema del riformismo come caratteristica essenziale della “sinistra moderna”. Non che questo rimetta in gioco la storica alternativa del riformismo che è la rivoluzione, perché a quella sembra non credere più nessuno a parte qualche sparuto manipolo di estremisti. La questione è che non credendo più nella possibilità di riformare in via evolutiva il sistema che abbiamo davanti (perché di questo in essenza si trattava) si ripieghi semplicemente sulla testimonianza di fede nell’utopia. Davvero una china pericolosa, anche perché in ultimo si finisce di unire sperimentalismi azzardati con compromessi al ribasso su altri fronti.

La questione della rinascita dei particolarismi “regionali” contro i grandi stati “nazionali” è altrettanto sintomo della dissoluzione di un paradigma della politica che ha informato di sé il XIX e il XX secolo. Naturalmente il paradigma che abbiamo chiamato nazionale è del tutto storico come gli altri, ma resta il fatto che per superarlo bisogna che le “piccole patrie” siano in grado di con-federarsi in qualche modo, altrimenti non possono sopravvivere nel mondo globalizzato. Chi pensa che in fondo questo sia possibile per l’esistenza della UE sottovaluta che questa istituzione è al momento almeno nelle mani degli “stati nazionali” che non si vede come possano avere interesse alla loro liquidazione. Ne deriva che il conflitto inevitabile sarebbe, se si verificasse, un ulteriore elemento di instabilità di un sistema già dissestato.

Stessa cosa più o meno si può dire per la questione dell’atteggiamento verso il cosiddetto Califfato dell’Isis. Ad intervenire militarmente in realtà non si riesce, ma al tempo stesso lasciar correre si rivela impossibile, perché non solo si sconvolgerebbe la geopolitica del Medioriente, ma si metterebbe in pericolo la stessa stabilità interna dei paesi europei. D’altro lato fare qualcosa presenta il rischio di ripetere l’insuccesso dell’intervento anti-Gheddafi, ma anche il lasciar andare le cose per il loro verso (pur dietro lo schermo di improbabili mediazioni dell’ONU) ha come conseguenza aumentare le paure interne all’Europa dando così abbondante acqua in cui far nuotare il pesce, sempre più vorace, del populismo.

Ancora una volta ci vorrebbe una buona leadership, dotata non solo di visione, ma anche di saldi strumenti di intervento economico visto che stiamo pur sempre affrontando la crisi in quel settore. Era sembrato che la Germani potesse assumersi questo fardello, dopo interventi di politica economica non esattamente animati da lungimiranza, ma la vicenda Volkswagen, industria simbolo del mito tedesco dell’efficienza e solidità, ha gravemente compromesso questa possibilità per la crisi di credibilità internazionale che ha suscitato verso il “modello tedesco”.

L’Italia è attrezzata a muoversi in questi difficili scenari? Non sappiamo se lo sia a livello degli staff che professionalmente assistono chi elabora le nostre linee di politica. Certo non appare esserlo in termini di comunicazione e di dibattito pubblico. In tempi di politica che deve svolgersi molto “sulla scena” non è una carenza da poco.