Una giustizia di pancia. A margine del caso Scattone.
C’era una volta il garantismo. A seguire le polemiche sul “caso Scattone”viene da chiedersi cosa ne sia, nel paese che ha dato i natali a Beccaria e Filangieri, dei principi intorno a cui si èsviluppata la penalistica moderna, quella che ha portato al riconoscimento del valore costituzionale del principio del finalismo rieducativo della pena, richiamato nell’art. 27, comma 3 (“le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”).
Naturalmente non basta che un principio sia riconosciuto a livello costituzionale perchéne sia garantita l’efficacia. La giurisprudenza costituzionale ha peròspecificato a piùriprese che la necessitàcostituzionale della rieducazione, «lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualitàessenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (Sent. 313 del 1990). Se la rieducazione del condannato rappresenta il fine essenziale della pena c’èda interrogarsi sulle ragioni di una reazione tanto nervosa mostrata da un’ampia parte dell’opinione pubblica al percorso riabilitativo di Giovanni Scattone, il quale dopo aver saldato i propri debiti con la giustizia ha ottenuto una cattedra di ruolo in un liceo romano, prontamente abbandonata a seguito delle polemiche sorte intorno al caso.
Negli ultimi anni nel corpo sociale italiano ha preso forma un giustizialismo sempre piùdiffuso e sommario, espressione di un sentire di pancia che, valicati i confini della discussione da bar, detta ormai la linea di palinsesti televisivi e l’agenda di varie forze politiche. In fondo vale per la giustizia quello che si dice riguardo al calcio, ossia che in Italia ci sono tanti tecnici della nazionale quanti sono gli abitanti. L’esorbitante centralitàche le vicende giudiziarie hanno guadagnato nel sistema informativo nazionale (Cogne, Garlasco, Erba, Perugia,…) ha fatto sìche tutti si sentano legittimati a discernere della colpevolezza degli indagati in nome di un senso di giustizia dai confini tutt’altro che definiti. Poco importa se chi prende la parola ignora i fondamenti della civiltàgiuridica moderna, quel che conta èdare voce a un’impressione, alimentare un’idea, inseguire un’opinione.
Qualcuno lo chiama populismo penale, a sottolineare i pericoli di distorsione del sistema giudiziario che deriverebbero dalla pressione esercitata dalle logiche del consenso politico e da un senso di giustizia diffuso che al principio della riabilitazione e della reintegrazione sociale del condannato preferisce un approccio squisitamente sanzionatorio. Si tratta di un fenomeno in evidente espansione, che non riguarda solo l’uso distorto delle informazioni sulla criminalitàe il ricorso a sbrigativi modelli demagogici improntati al giustizialismo, ma investe parti significative del circuito comunicativo che si crea tra opinione pubblica e sistema giudiziario.
Il fatto che il processo a Scattone e Ferraro sia stato segnato, cosìcome altri noti processi mediatici (si pensi al caso di Perugia), da evidenti fragilitàinvestigative e altrettanto conclamate debolezze procedurali, non sembra rilevare minimamente ai fini di una riflessione, quella sul destino sociale di un condannato, che si vorrebbe equilibrata e che invece èegemonizzata dall’idea che le pratiche del sistema giudiziario debbano ricalcare il “sentire comune”. Qualche ora passata a guardare uno dei mille programmi che ogni giorno “mettono in scena”l’universo giudiziario sembrano valere, in questo senso, piùdi mille teorie della pena prodotte dalla riflessione giuridica e filosofica occidentale. Perchédove non arriva la legge (con i suoi cavilli) o il sistema giudiziario (con le sue inadeguatezze) arriva la gogna mediatica, quella che permette a giornalisti e opinionisti di tuonare contro un cittadino che, dopo aver scontato la pena comminatagli al termine di una vicenda processuale tutt’altro che trasparente, ha confidato di poter essere riammesso nel circuito sociale.
Certo non ci si puòaspettare che nel discorso pubblico la notizia sia accompagnata da articolate riflessioni sui profili teorici della pena, certo la scelta di Scattone di percorrere la via della riabilitazione in un contesto formativo presta facilmente il fianco a dubbi di opportunità, ma ci si aspetterebbe di non vedere calpestati pubblicamente i piùelementari principi del garantismo, a meno che non si pensi che le garanzie giuridiche a tutela dell’individuo riguardino solo il momento processuale e smettano di valere quando la pena èestinta e il cittadino torna a essere un soggetto socialmente attivo. La delegittimazione del sistema giudiziario e, con esso, del cosiddetto Stato di diritto passa anche per l’elevazione del sentire comune a principio giuridico.
Varrebbe allora la pena chiedersi se paradigmi di giustizia che includono la vittima e la società nel percorso di riparazione potrebbero avere effetti positivi sulla percezione del condannato come effettivamente riabilitato e quindi sull'accoglienza che la società gli riserva.
di Paolo Pombeni
di Maurizio Cau
di Andrea Frangioni *