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L’incerto futuro della coalizione giallo-rosa

Luca Tentoni - 26.10.2019
Elezioni Umbria

Alla vigilia delle elezioni regionali in Umbria (che saranno seguite nei prossimi mesi da quelle in Emilia-Romagna e Calabria, prima del turno primaverile per altre sei regioni ordinarie) è opportuno soffermarsi sull’attuale configurazione dell’alleanza (giallo-rosa) che governa il Paese, confrontandola con la precedente (giallo-verde). Le due maggioranze che nella legislatura in corso hanno sostenuto i due Esecutivi guidati da Giuseppe Conte hanno infatti in comune, oltre al presidente del Consiglio e a qualche punto programmatico, la presenza del M5s (una novità assoluta, nella storia italiana). Per il resto, il quadripartito attuale è diverso non solo dal bipartito precedente, ma anche – per certi versi – dal tripartito M5s-Pd-Leu nato a inizio settembre, prima della scissione renziana. Nel 2018, subito dopo il voto per il rinnovo del Parlamento e a seguito di una lunga e faticosa ricerca di intese fra i partiti, è nata l’alleanza giallo-verde fra la Lega e il M5s. La dinamica coalizionale si è rivelata quasi subito molto più sbilanciata a favore del partito di Salvini (soprattutto per la sovraesposizione mediatica del leader sovranista), facendo intravvedere fin dai primi sondaggi un sostanziale allineamento fra la forza elettorale del soggetto politico più votato nel 2018 e l’alleato leghista. Nei mesi successivi, la Lega ha completato il recupero dell’elettorato che negli anni fra il 2011 e il 2014 aveva lasciato – deluso - il centrodestra per rifugiarsi nel M5s. Dopo le elezioni europee, di fronte all’evidenza che un patto politico (anche se denominato “contratto di governo”) nato per assicurare alle parti contraenti uguale peso e la non belligeranza fra i rispettivi simpatizzanti (che, nel caso degli elettori incerti fra i due partiti antisistema, si sono in pochi mesi spostati nella Lega) aveva finito per avvantaggiare quasi solo Salvini, sarebbe stato forse più logico ipotizzare il disimpegno dei Cinquestelle dalla maggioranza. Questa opzione, tuttavia, sarebbe stata un’arma per Di Maio solo se fosse stato già pronto e aperto il “secondo forno”, quello del Pd. Nella realtà, invece, il patto fra Lega e M5s si rivelava in quel momento ciò che era: un accordo disuguale, in cui un contraente (Salvini) poteva – in alternativa alla permanenza nella maggioranza - approfittare della crescita dei consensi al suo partito per sommare le sue forze a quelle del centrodestra e andare a nuove elezioni (certo di vincerle) con Fratelli d’Italia ed eventualmente anche con Forza Italia. I pentastellati, decimati dal voto delle europee, certi di rischiare moltissimo in caso di scioglimento anticipato delle Camere, non solo hanno cercato in tutti i modi di sorreggere il primo governo Conte, ma non hanno esitato (sia pure dando vita ad una trattativa apparentemente sempre sull’orlo della rottura) a costituire una nuova coalizione (stavolta “classica”, con tre partiti poi divenuti quattro, senza contare l’apporto esterno di forze minori) nel momento in cui la Lega ha chiuso l’esperienza dell’Esecutivo giallo-verde e – nel contempo, inaspettatamente – il Pd ha improvvisamente abbandonato la sua indisponibilità ad allearsi con i Cinquestelle. In pratica, la situazione si è improvvisamente rovesciata: chi aveva – a differenza dall’alleato – la possibilità di minacciare l’uscita dalla coalizione giallo-verde e possedeva una seconda opzione (passando per nuove elezioni: una sorta di maggioranza virtuale di destra già pronta) ha dovuto fare i conti non con i numeri dei sondaggi e con l’esito delle elezioni europee ma con quelli – molto più concreti – della consistenza delle forze politiche nel Parlamento nazionale (che hanno permesso la nascita del governo giallo-rosa, mentre non avrebbero consentito al centrodestra di raggiungere la soglia minima dei 161 voti in Senato e dei 316 alla Camera). La “maggioranza reale parlamentare” di Di Maio ha battuto quella “virtuale elettorale” di Salvini. Ciò è stato possibile, come si diceva, per il mutato atteggiamento del Pd. Il “Conte-bis”, tuttavia, è nato ed è tuttora come una coalizione diversa dalla precedente: formata da tre partiti (ora quattro), costruita secondo i canoni tradizionali (sul programma, non sul “contratto”; non basata su un doppio elenco di progetti da realizzare, ma su un minimo denominatore comune alle forze della maggioranza), basata su un sostanziale equilibrio di forze fra i due maggiori partiti (Pd e M5s) con uno spazio per il partner minore (Leu) e un ruolo non più notarile e di secondo piano, ma di primus inter pares, del presidente del Consiglio. La natura del patto non appare competitiva come quella dell’esperienza giallo-verde, sia perché il segmento di elettorato “di frontiera” fra Cinquestelle e Democratici è molto più esiguo rispetto all’ampio bacino di votanti che nel 2018-’19 avrebbero potuto indifferentemente scegliere Lega o M5s, sia perché fra i punti fondativi dell’alleanza c’è la necessità di impedire a Salvini di andare a nuove elezioni e vincerle. Da qui, inoltre, si è partiti per intraprendere un percorso più impervio e forse un po’ frettoloso, come quello di esportare l’intesa nazionale di governo a livello locale (per ora, solo in Umbria): un’ulteriore dimostrazione del carattere teoricamente cooperativo e non competitivo della coalizione giallo-rosa. Alcuni fatti ed elementi, tuttavia, hanno rapidamente mutato il quadro: le difficoltà di leadership di Di Maio nel M5s, di fronte al protagonismo di un Conte che interpreta in modo sempre più politico, attivo e propositivo il ruolo di presidente del Consiglio; la scissione a destra del Pd, che spinge Renzi a cercare visibilità per il suo nuovo partito, anche a costo di mettere a repentaglio la vita del governo (non della coalizione, però) da un lato chiedendo modifiche all’impostazione della legge di bilancio (entrando in contrasto con Conte, visto come un possibile concorrente nell’area centrale e moderata dell’elettorato) e, dall’altro lato, aprendo platealmente le porte di Italia viva a quadri, elettori ed eventualmente deputati desiderosi di abbandonare Forza Italia; infine, la necessità di Conte di completare la sua “emancipazione” da Di Maio, col pericolo – tuttavia – di divenire un elemento ingombrante per il leader pentastellato (non necessariamente, però, per il M5s) e di spostarsi – avendo a che fare, nella destra della coalizione, con la scarsa simpatia del “blocco” renziano – su posizioni di mezzo, che secondo alcuni potrebbero essere considerate molto vicine al Pd. In una coalizione che – all’esordio – aveva dunque due partner maggiori (uno su posizioni che potremmo definire riformiste, l’altro massimalista) e uno minore, si è avuto in poco tempo un riposizionamento forzato. Da un lato, ormai, c’è il M5s, che un po’ gioca di sponda con Renzi (in funzione di ridimensionamento del presidente del Consiglio e di tenaglia nei confronti del Pd), dall’altro Italia viva (un partito spostato sul versante centrista, ma molto più combattivo e mediaticamente visibile degli alleati minori dei governi di centrosinistra della scorsa legislatura); mentre Leu conserva la sua posizione (nell’indecisione se entrare nel Pd o presidiare un’area nella quale si potrebbe attrarre qualche voto dai Cinquestelle), il partito di Zingaretti si trova in una situazione sempre più scomoda. I Democratici, infatti, hanno sulle loro spalle il peso di eventuali sconfitte elettorali della “coalizione ampia” voluta per l’Umbria oggi (e chissà, in futuro, per Emilia-Romagna e Calabria); hanno a destra non più una Forza Italia in declino, ma il partito renziano che cerca di catturare voti e quadri ex Pd e, “a sinistra” (diciamo per semplicità, ma anche a destra, date certe posizioni dei pentastellati che appaiono talvolta molto in continuità con l’esperienza giallo-verde) il M5s. Fino a quando la questione della riduzione del numero dei parlamentari non sarà risolta (in caso di mancato svolgimento del referendum o di vittoria dei sì in un’ipotetica consultazione) il Pd non avrà l’arma dello scioglimento anticipato delle Camere: Mattarella non porrebbe fine alla legislatura prima dell’attuazione (o della bocciatura popolare) della riforma costituzionale. Quindi, se il M5s e Italia viva possono tirare la corda della coalizione da un lato e dall’altro, oggi il Pd è costretto a restare intrappolato, come ai tempi del governo Monti. In caso di elezioni, il partito di Zingaretti non avrebbe la maggioranza dei seggi, ma (alleandosi con Leu e con altri minori, forse non con Renzi) potrebbe contare su una percentuale di voti e di seggi non minore rispetto a quella ottenuta nel 2018; discorso molto diverso, invece, per il M5s (che rischierebbe di rieleggere un terzo o metà dei propri parlamentari uscenti) e per Italia viva (che oggi può ingrandire a dismisura i propri gruppi alla Camera e al Senato con ingressi dal Pd, da FI e dal Misto o dal M5s, ma che – con il taglio dei seggi disposto dalla riforma costituzionale e con gli angusti spazi di rappresentanza che il Rosatellum riserva ai partiti minori, potrebbe confermare i propri attuali seggi solo ottenendo un risultato oltre ogni aspettativa). In sintesi, le dinamiche nella coalizione sono oggi favorevoli a M5S e Iv, mentre, una volta aperta la “finestra elettorale”, sarebbe il Pd a poter avere le chiavi di governo, maggioranza e legislatura.