Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

L’importanza e il condizionamento dei simboli

Paolo Pombeni - 04.11.2014
Matteo Renzi e articolo 18

Sul fatto che l’ormai ultrafamoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori sia un “simbolo” più che un vero problema politico-legislativo in sé sono d’accordo quasi tutti. Su cosa ciò significhi e su quali condizionamenti ponga alla fase attuale della vita del paese i pareri sono più che divisi.

Semplificando, ma non troppo, una parte dei sindacati e l’autoproclamatasi rappresentanza della “vera sinistra” ne ha fatto il simbolo della tutela della dignità del lavoratore come persona. Se si ammette che a qualcuno il lavoro possa venire tolto senza “giusta causa” se ne fa una merce soggetta agli umori di chi la può “comperare”. Ovviamente in astratto il ragionamento non fa una grinza (ci si potrebbe chiedere perché allora il principio non debba valere dove non ci sono più di 15 dipendenti, ma lasciamo perdere).

Sul fronte opposto si obietta che le relazioni industriali sono così complesse nella società moderna che non considerare l’impiego di forza lavoro come una delle variabili del processo produttivo è illusorio. In tempi di cicli produttivi altalenanti, la possibilità di impiegare e disimpiegare risorse per il lavoro sembra necessaria. Se non lo si fa, si condanna il sistema o a contenere l’investimento in forza lavoro per non trovarsi in futuro gravati di costi non più sostenibili, o a fuggire verso lidi dove quella flessibilità sia presente. Ed anche in questo caso il ragionamento non fa una grinza.

In mezzo stanno situazioni difficili da valutare, quelle dove il problema non si affronta su grande scala, ma su fattispecie individuali o di piccoli gruppi. E’ qui che il caos è massimo e che la matassa è difficile da sbrogliare. La cessazione del rapporto di lavoro per un singolo o per un piccolo gruppo quando ha una “giusta causa” e quando invece è frutto di una “discriminazione” dovuta a ragioni non accettabili? Fissare questo discrimine a livello normativo è possibile solo in termini molto astratti. Nei casi concreti si apre inevitabilmente un contenzioso e su questo ci deve essere qualcuno che giudica.

E’ qui che è cascato il classico asino. La norma immaginata dagli autori dello Statuto dei Lavoratori presupponeva un sistema giudiziario fortemente autorevole, molto specializzato, che fosse in grado di agire come deterrente verso i “furbi” di entrambi i versanti: sia dei datori di lavoro che si inventavano “giuste cause” inesistenti, sia dei lavoratori che in caso di licenziamento  lo denunciavano a prescindere come arbitrario e discriminatorio. La capacità arbitrale della magistratura non si è avuta, come continuamente viene documentato in ricerche su una giurisprudenza più che ondivaga e non di rado (anche se meno di quel che le generalizzazioni farebbero supporre) capace di pronunce viziate da pregiudizi a favore di quella che viene a priori identificata come la parte debole da tutelare.

E’ a questo punto che il mantenimento o la cancellazione dell’art.18 sono divenuti quel simbolo ambiguo che rischia di far naufragare il nostro sistema sociale in un momento economico assai delicato. La soluzione immaginata per uscire dall’impasse sommariamente descritto è la monetizzazione a priori della controversia: si eviti di giudicare, tranne in casi estremi, se un licenziamento è o non è discriminatorio, trasferendo la tutela della parte debole in un suo diritto ad avere un risarcimento a prescindere. Se si volesse sottilizzare, si potrebbe notare che la trasformazione del risarcimento del danno in un corrispettivo monetario è una evoluzione sostanziale nella storia del diritto moderno.

Per i vertici sindacali con il seguito dei puristi della sinistra ortodossa questo però significa aprire simbolicamente la via al ridimensionamento di uno dei poteri classici delle rappresentanze dei lavori, cioè quello di garantire a chi si associa una tutela deterrente verso il datore di lavoro. In tempi di declino dell’inclinazione ad iscriversi ai sindacati non è naturalmente questione da poco.

Per i datori di lavoro all’opposto sottrarsi al vincolo delle liti giudiziarie nel governo del proprio personale è sinonimo di recupero di uno spazio di manovra che, sempre simbolicamente, è ciò che sembra essere ridotto nel nostro paese, che è sempre più vittima delle burocrazie e dei controlli non sempre ragionevoli.

Lo sfondo, che si tende a dimenticare, è la messa in discussione del potere di condizionamento più vasto sulla politica economica, in passato organizzata su un sistema piuttosto consociativo. Questa è di nuovo una questione che interessa più i vertici del sindacato che le sue realtà a livello di fabbrica, le quali, almeno nelle realtà più dinamiche e strutturate, stanno già avviando altre forme di relazioni con la controparte imprenditoriale.

Purtroppo la sottovalutazione da parte di tutti del vicolo cieco in cui sarebbe finita la trasformazione di una questione delicata come la tutela del diritto al lavoro in un simbolo astratto, per di più leggibile solo da chi il lavoro ce l’ha (e cioè non più dalla totalità, almeno virtuale, della forza lavoro), sta sottoponendo il paese a grossi rischi. Il governo non può tornare indietro se non vuol dare un alibi alle forze imprenditoriali per ritrarsi dal rischio di investimento (necessario per la ripresa economica). Il sindacato non può tirarsi indietro perché ammetterebbe una sconfitta che ne delegittimerebbe i vertici e lo indebolirebbe in qualsiasi vertenza futura.

Insomma un brutto pasticcio.