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L’immigrazione in Italia: un dibattito impazzito

Giovanni Bernardini - 14.05.2015
Immigrazione clandestina

“Un paese impazzito che non pensa più al domani”. Così sbottava nove anni fa il Presidente del Consiglio Romano Prodi di fronte alla sollevazione degli interessi corporativi contro la sua prima legge finanziaria. “Impazzito sarà lui!”, replicò l’orgoglio patriottardo di una parte della nazione. Quasi un decennio più tardi, l’impressione è che Prodi abbia forse peccato di precisione ma non di lungimiranza nella scelta dei termini. Oggi l’opinione pubblica italiana ritratta dai sondaggi e dai commenti sui social media, assomiglia spaventosamente all’uomo medio descritto da Pasolini e Welles in un film di tanto tempo fa: “un mostro … razzista, colonialista, schiavista, qualunquista”. E nella scelta di un tema su cui misurare la schizofrenia del paese, l’immigrazione vince a mani basse.

Non servono le cifre, non valgono le verifiche, ogni cognizione di causa è sommersa da un furore disinformato, fomentato da irresponsabili in cerca di tornaconto politico. Nemmeno le pur innegabili responsabilità dei media bastano a spiegare come 79 (settantanove) nuovi rifugiati equivalgano a una minaccia mortale al benessere della Valle D’Aosta; o a dar conto delle bufale sull’“epidemia di scabbia”, mentre ogni dato dimostra che nessuna epidemia è in corso, e che tantomeno gli immigrati sono l’agente scatenante di una malattia mai debellata in Italia. E che dire dell’indistruttibile castroneria per cui lo stato darebbe “35€ al giorno a ogni immigrato”, cifra che si riferisce invece al rimborso concesso agli enti incaricati dal Ministero degli Interni per agevolare l’iter di richiesta dello status di rifugiato. Inutile aggiungere che questa precisazione restringe di molto il numero dei beneficiari, che la quota serve a garantire un trattamento efficace dei richiedenti (toh, anche per assicurarsi che non siano “portatori di epidemie”), e che i recenti casi di cattiva amministrazione o frode siano da addebitare a italianissimi responsabili.

Non di rado la confusione è alimentata dalle sedi istituzionali deputate a fare chiarezza. È di pochi giorni fa l’esortazione del Ministro degli Interni Alfano affinché i Comuni applichino la sua direttiva che “permette di far lavorare gratis i migranti”. Scontato il tripudio dei social media: il lavoro coatto ripulirà le piazze da masse di neri nullafacenti o peggio! Peccato che basti poco per ridimensionare l’ardito slancio alfaniano a mero nonsenso. L’immagine tragicomica dell’invasore svizzero o canadese (dunque extracomunitario), obbligato a curare le aiuole pubbliche per avere incautamente messo piede nel Belpaese, suggerisce già quanto sia fuorviante l’uso scorretto dei termini. Se il Ministro parla più propriamente di “richiedenti asilo”, dovrebbe ben ricordare la famigerata legge “Bossi-Fini”, promulgata quando egli abitava ancora politicamente nella “casa (delle Libertà) del padre”: essa prevede che il richiedente asilo riceva un permesso di soggiorno di sei mesi con l’espresso divieto di accedere al mercato del lavoro legale. Chi avrà il coraggio di spiegare l’assurdo per cui quegli “immigrati” non possono lavorare dietro compenso senza così violare la legge? E ancora: Alfano fa riferimento a una circolare del suo Ministero che invita “prefetture ed enti locali a favorire lo svolgimento di attività di pubblica utilità da parte degli immigrati in attesa della protezione internazionale”. Un atto che non ha valore di legge, perché la promozione del lavoro gratuito solleverebbe non pochi problemi. La Costituzione stabilisce infatti che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”; spiace per i delusi che, all’indomani del fascismo, i costituenti abbiano trascurato di introdurre appropriate differenziazioni etniche e razziali. Del resto, il lavoro gratuito o pressoché tale è un’esperienza che già molti italianissimi giovani sperimentano quotidianamente: deviare il loro risentimento contro gli immigrati (che a quel punto “ruberanno” persino il lavoro gratuito!) è un trucco di vecchia data, ma che evidentemente non cessa di funzionare.

Non finiscono qui le sorprese per Alfano e simpatizzanti. È facile verificare, per chi ne ha voglia, che non pochi richiedenti asilo stanno già svolgendo attività di volontariato nei comuni italiani che glielo consentono. Una classe politica responsabile dovrebbe piuttosto avere il coraggio di spiegare che molti di loro non hanno alcun piacere di attendere il responso delle autorità con le mani in mano, ma al contrario aspirano ad acquisire nel frattempo competenze professionali e un miglior grado d’integrazione. Pretendere che essi godano di tutele e diritti lavorativi al ribasso rispetto a quelli degli “autoctoni” è un gioco rischioso, perché nessuno assicura che prima o poi anche a questi ultimi non sia chiesto di fornire prestazioni lavorative gratis per “ripagare” servizi e prestazioni pubbliche di cui godono, una volta affermato il principio.

I fenomeni migratori sono una caratteristica di ogni epoca storica dall’alba dell’umanità: affrontarli con l’attuale furia irrazionale non contribuirà in alcun modo a una loro gestione necessaria e positiva per le parti in causa, compresa quella autoctona. È tempo piuttosto che tanti operatori dell’informazione cessino di presentare la “crisi”, la paura o l’ignoranza come attenuanti legittime per espressioni chiare di un pericoloso razzismo; troppi precedenti storici hanno visto prendere di mira dei capi espiatori: è finita male per questi ultimi, ma anche i problemi degli altri ne sono usciti aggravati. E si abbia finalmente il coraggio di valutare lo stato preoccupante del dibattito pubblico italiano invece di cullarsi nell’ipocrisia che il paese sia migliore della sua classe politica, nella fattispecie del suo Ministro degli Interni. Perché quando si discute di immigrazione in Italia, l’orizzonte temporale della pazzia collettiva non sembra più domani, ma oggi.