La giusta distanza
Il centenario della Grande Guerra tra riflessioni degli storici e isterie ideologiche
C’è del ridicolo in Italia.
Che il centenario della prima guerra mondiale avrebbe portato con sé la riesumazione (è il caso di dirlo) di antiche polemiche, era prevedibile. L’enorme successo internazionale di un libro tutt’altro che originale (ma innegabilmente accattivante) come I sonnambuli di Cristopher Clarke è la migliore dimostrazione di quanto la guerra del 1914 sia ancora d’ attualità. E’ bastato che l’autore riprendesse in mano la questione delle responsabilità del conflitto europeo, trasferendolo dai cattivi tedeschi alla controparte slava (serbi e russi) per suscitare un pandemonio. In Germania autorevoli specialisti come Gerd Krumeich si sono precitati a dissentire, sostenendo la validità di un giudizio sulle colpe del governo (e soprattutto dello Stato maggiore) del Reich che si riteneva assodato fin dai tempi della Fischer Kontroverse negli anni Sessanta. D’altra parte, molti lettori (e persino alcuni parlamentari) hanno espresso pubblicamente la loro soddisfazione per questa retroattiva assoluzione al tribunale della storia. Meno bene l’hanno presa i nuovi colpevoli: a Belgrado l’associazione tra Princip e i terroristi di Al Qaeda è piaciuta poco, e ancor meno l’immagine (estremamente convincente) di una leadership Serba irresponsabile, in grado di trascinare il mondo nella catastrofe con il concorso dei protettori russi. Passioni così accese su eventi di cento anni fa possono sembrare grottesche (il fatto che si sia gridato al “complotto antislavo” non garantisce del resto la pacatezza con cui nei Balcani si guarda ancora oggi al 1914). Ma, perlomeno, si tratta di passioni accese pour cause. Come ha affermato Andreas Rose, un nuovo scontro (storiografico) sulla “crisi di luglio” è ampiamente giustificato dalle sue conseguenze. La responsabilità della prima guerra mondiale porta con sé le colpe di tutto il Novecento: Versailles, il nazismo, il secondo conflitto, l’Olocausto, tutto sembra dipartire dall’incapacità di fermare la valanga del dopo Sarajevo, e tutto pesa (o pesava a questo punto) sulla cattiva coscienza tedesca (A. Rose, Ein neuer Streit um die Deutungshoheit?, in HSK del 30 luglio 2014).
Al contrario, pare che in Italia la portata del dibattito pubblico sulla Grande Guerra si stia votando al piccolo cabotaggio e alla banalità imbarazzante. Da un lato, nelle ex province irredente di Trento e Trieste (per ovvi motivi di primato cronologico ed emotivo, fino ad oggi le più intensamente coinvolte dalla commemorazione), il centenario si sta rivelando l’occasione per regolamenti di conti e beghe locali che sarebbero sembrate patetiche già nel 1919. I nostalgici del buon governo asburgico (variante locale dei revisionisti neo-borbonici e dei nostalgici del papa-re) stanno affilando le armi a suon di dichiarazioni sul giusto supplizio riservato nel 1916 a Cesare Battisti, prontamente degradato da protomartire della causa nazionale a terrorista fanatico e traditore, e di richieste di rimozione delle bandiere italiane dalle piazze in occasione delle cerimonie ufficiali. Dall’altro, si è già levata alta la voce di chi inorridisce alla sola idea di “celebrare”, perché il conflitto si può solo deplorare: un importante direttore di museo si è spinto ad affermare che non bisogna cercare di comprendere o di calarsi nel contesto culturale dei contemporanei, perché la guerra è un orrore e può essere solo inconoscibile e incomprensibile. In tutti questi casi, a egemonizzare la discussione pubblica sono alcuni equivoci di fondo.
Il primo è che qualcuno voglia “celebrare” la Vittoria intonando l’inno del Piave e brindando ai maggiori fasti della nazione. Salvo che per qualche sparuto nostalgico, il gusto per i trionfi marziali non alligna più né in Europa occidentale, e di certo non tra gli studiosi di storia. I quali vorrebbero fare il loro mestiere cercando di comprendere, di chiarire, di conoscere e non da ultimo di spiegare (ammesso che qualcuno dia loro retta). Tentare di superare la distanza che ci separa da ragioni e emozioni di chi il conflitto lo volle, ma anche e soprattutto di chi combatté fino in fondo (e fu la maggioranza degli uomini in uniforme e dei civili sul fronte interno), non significa rimpiangere i fasti della “più grande Italia”. D’altra parte, una serena considerazione sulle vicende del passato non può nemmeno sottrarsi alle importanti eredità che la guerra ha lasciato. Fu l’ecatombe di una generazione, e schiuse le porte all’era della violenza indiscriminata contro i civili nella moderna Europa, ma fu anche uno straordinario acceleratore per lo sviluppo delle tecnologie e della medicina, per la modernizzazione delle masse (in Italia come in Francia, la trincea fu veramente una scuola comune) e per il loro ingresso nella vita politica. Non da ultimo per la conquista pratica di molti diritti civili da parte delle donne. Tutto ciò va ricordato, con la giusta distanza. L’unico metro con cui si può leggere correttamente la Grande Guerra senza cadere nella puerile nostalgia dei tempi andati e nei pietismi anacronistici di maniera.
* Professore a contratto Università di Padova
di Claudio Ferlan
di Riccardo Brizzi
di Novello Monelli *