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17 aprile 2024
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L’Europa e i rischi della Brexit

Michele Iscra * - 05.04.2017
Donald Tusk

Non sarà una semplice querelle diplomatica l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea e non perché durante la sua permanenza Londra abbia dato un grande apporto allo sviluppo di una autentica integrazione europea. Al contrario ha sempre più o meno remato contro: le battaglie della Thatcher contro Delors sono memorabili, ma neppure Blair può essere considerato un vero europeista, basterebbe ricordare la sua politica verso l’Iraq, così debitrice del rapporto privilegiato con Washington.

Sarebbe però semplicistico pensare che l’uscita del Regno Unito dalla UE in fondo non faccia che togliere di mezzo un partner poco convinto e poco disciplinato. Piuttosto si tratta di un passaggio che metterà a nudo una serie di debolezze la cui gestione appare piuttosto problematica.

La prima questione riguarda la riuscita o meno dell’operazione così come è vista dagli strateghi britannici di questa avventura. Detto in termini molto semplificati, a Londra si pensa che sostanzialmente l’interconnessione delle economie al giorno d’oggi sia tale per cui difficilmente si potrà escludere la Gran Bretagna dal rimanere nei vantaggi di un mercato sostanzialmente aperto senza sopportarne i costi in termini di sottomissione ad una autorità di regolamentazione sovranazionale. Chi ha lanciato l’immagine del Regno Unito che punta a diventare una specie di super Svizzera ha in mente possibili strategie di facilitazione per i capitali che la finanza britannica potrà offrire in concorrenza con la finanza dei paesi dell’Unione. Tuttavia il paragone può essere esteso ricordando che alla fin fine la Svizzera ha accordi con la UE che le consentono una tranquilla e proficua vita ai margini dell’Unione.

Se gli inglesi riuscissero in questa strategia in definitiva raggiungerebbero l’obiettivo che fu della Thatcher, avere una UE che è sostanzialmente solo un mercato comune. Naturalmente a Bruxelles l’hanno capito e preparano il primo fuoco di sbarramento. Il Presidente Donald Tusk ha dichiarato che non ci saranno accordi commerciali prima di avere terminato il negoziato per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, il che significa fra un paio d’anni con in mezzo tutte le asprezze che si possono immaginare.

La questione però è se l’attuale struttura dell’Unione sia in grado di reggere 24 mesi di “resistenza”. A giudicare da quel che si vede in giro non sembra. Può darsi che i negoziatori della Commissione siano ben attrezzati per l’impresa (ma lo sono anche i negoziatori britannici), però è dubbio che questi stessi sentimenti siano condivisi in tutti i 27 partner. I paesi del blocco orientale non sono proprio dei campioni dell’europeismo e sono tutto sommato più interessati a mantenere buoni rapporti commerciali con un paese che ha una buona capacità come importatore piuttosto che sostenere una politica comunitaria che hanno già messo ripetutamente in discussione.

E’ banale sospettare che Londra conti sulla sua capacità di seminare zizzania fra gli stati membri dell’Unione, soprattutto se la crisi attuale continua e di conseguenza non ci saranno risorse per comprare il consenso dei riottosi. Ovviamente non va sottovalutato l’interesse del blocco dei paesi economicamente più determinanti a non consentire che Londra diventi una specie di porto franco in grado di tornar dominante nel quadro della finanza internazionale. Specialmente i tedeschi hanno poco interesse a consentire l’affermarsi di un quadro del genere.

Secondo alcuni la vera forza della Gran Bretagna sta nel suo ruolo di relativa potenza militare: su quel terreno è indubbiamente più efficiente e strutturata dei paesi europei, anche se andrebbe valutato quanto per esempio i tedeschi stiano facendo progressi in quel campo. Anche a prescindere da questo va però valutato il fatto che il sistema delle relazioni militari non è governato dalla UE, ma dal sistema internazionale dominato per quel che riguarda l’Europa dagli USA. Al di là delle sparate di Trump è da dubitare che a fronte dell’aggressività della Russia sia consentito ai paesi europei di dividersi in queste circostanze.

Alcuni fanno notare che anche la UE potrebbe lavorare a spargere zizzania in Gran Bretagna. La questione scozzese è sulle pagine di tutti i giornali e l’Irlanda del Nord presenta più di un problema, soprattutto per il fatto che Dublino rimarrà un membro dell’Unione. Nella stessa opinione pubblica inglese c’è una componente cospicua che non ama molto le impennate della Brexit. Due anni sono un periodo sufficiente per permettere anche dei cambiamenti nel modo di sentire della gente. La complessità della revisione della legislazione britannica per quel che è derivata dalla ricezione delle norme europee può fornire molte occasioni al parlamento per mettere in crisi l’attuale maggioranza di governo.

Insomma la vicenda della Brexit è un passaggio che influirà inevitabilmente in profondità sia sull’organizzazione della UE sia sulle politiche dei suoi stati membri. Verranno messe alla prova le capacità di tenuta e di leadership delle istituzioni comunitarie, ma al tempo stesso le disponibilità dei paesi membri a convergere su politiche comuni sottraendosi all’impulso di mettere al primo posto vantaggi di corto respiro (ma tanto utili quando si deve andare al voto nelle attuali situazioni di turbolenze elettorali).

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea