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27 marzo 2024
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La difficile Europa

Paolo Pombeni - 06.02.2016
Pierre Moscovici

Dare troppa importanza alle sortite di Renzi su chi deve fare i compiti a casa, chi deve presentarsi col cappello in mano e roba simile è poco utile. Altrettanto inseguire le reazioni che le uscite del premier italiano suscitano a Bruxelles: anche quelle sono fatte tanto per finire sui giornali. Gli osservatori più attenti vedono bene le contraddizioni che si annidano in tutte queste posizioni. Werner Mussler sulla “Frankfurter Allegemeine Zeitung” ha ironizzato sul commissario Moscovici che prima dichiara solennemente che il rispetto dei parametri e l’ortodossia economica sono “un mantra” (parole sue) e poi deve far capire che, insomma, il termine va poi preso con cautela. Il commentatore tedesco ha insinuato che con la Francia, paese di cui Moscovici è stato ministro delle finanze, che rischia di sforare il limite di deficit del 3%, avesse tutto l’interesse ad andarci leggero.

Vale però la pena di passare oltre le sceneggiate politiche e di interrogarsi sulla sostanza della faccenda: l’Unione Europea è o no in crisi? C’è una leadership capace di affrontarla? Rispondere a queste domande significa anche affrontare la necessaria analisi del contesto mondiale in cui si muove l’Europa. Continuiamo a parlare di globalizzazione, ma poi ci dimentichiamo che è qualcosa di più di un vago slogan passpartout.

L’analisi che Draghi ha fatto giovedì 4 febbraio nel contesto non proprio amichevole della Bundesbank avrebbe meritato più attenzione. Il presidente della BCE ha parlato del convergere di forze internazionali contro la stabilità europea: un dato drammatico che si potrebbe desumere anche solo dall’andamento del mercato borsistico. Se si tratti di una vera e propria congiura o del convergere più o meno involontario di contingenze specifiche importa relativamente. Il fatto è che quella analisi parla di una ripresa difficile da avviare in modo rilevante e che le rilevazioni statistiche europee non inducono davvero all’ottimismo sul nostro futuro.

Siamo dunque nella classica situazione che richiederebbe una leadership politica. Può essere assunta direttamente da Draghi? Praticamente impossibile, per il semplice fatto che in una posizione come la sua non è possibile servirsi dell’armamentario retorico e “di agitazione” che è indispensabile per scalzare le posizioni dei capi dei governi nazionali. Improbabile che il ruolo possa essere rivestito dagli attuali vertici di Bruxelles: se tengono gli accordi presi a suo tempo è probabile che per rotazione tanto il presidente dell’Unione, il polacco Donald Tusk, quanto quello della commissione , il lussemburghese Jean-Claude Junker, possano essere sostituiti. Dire che non sarà impresa facile non è assolutamente una previsione difficile.

La tradizione potrebbe rimandare ad una direzione posta nelle mani del capo di stato più “carismatico” fra quelli dei 28 paesi che siedono nel Consiglio Europeo. La convinzione che questo ruolo sia stato assunto da Angela Merkel è molto diffusa, ma scarsamente fondata. Ovviamente la Germania ha un peso notevolissimo, ma la cancelliera non attraversa un momento facile. Basta leggere la stampa tedesca per vedere quanto sia sotto la pressione di critiche continue. Certo la Germania non è un paese come il nostro dove pur di dare contro al proprio premier (chiunque sia) si è disposti ad allearsi con chiunque, ma ciò non toglie che la politica europea del governo non goda di ampi consensi fra i commentatori.

Se escludiamo la Germania, è arduo trovare un paese che abbia al vertice un capo sufficientemente carismatico con un contesto sufficientemente solido per assumere quella posizione. I paesi geograficamente meno rilevanti hanno chiaramente difficoltà a proporre i loro leader per queste funzioni, a meno che non siano personaggi veramente fuori del comune, ma non sembrano esistere fattispecie di questa tipologia. I paesi maggiori non sono certo in buona posizione: Hollande non è accreditato per un ruolo simile, la Spagna un governo al momento neppure ce l’ha, chi sia il primo ministro del Belgio si fa fatica a ricordarselo. La Gran Bretagna è fuori partita, perché, a parte tutto, è sull’orlo di un referendum che se non la porterà ad uscire dalla UE sarà solo perché il suo premier avrà guadagnato il privilegio di essere il meno europeo possibile. I paesi dell’Est sono in mano a forze il cui europeismo lascia a desiderare (per metterla in modo blando).

In questo panorama si può anche capire perché Renzi si senta autorizzato a reclamare ruolo e visibilità, nonché a pretendere che Bruxelles non lo costringa a politiche economiche che ne minerebbero il consenso. Si può altrettanto capire che la tecnocrazia brussellese da un lato, e i professionisti delle cancellerie dei paesi europeo dall’altro vedano con irritazione questa contingenza per cui un parvenu, per di più alla testa di uno stato scassato, può permettersi di rivendicare in continuazione il suo posto a tavola.

Per averlo deve per forza di cose sperare che si ridefinisca l’assetto che la UE ha assunto nell’ultimo quindicennio. Quanto ciò sia possibile non è ancora chiaro, ma crediamo abbiano buone ragioni coloro che invitano a riflettere sul fatto che in caso contrario si rischia che non ci sarà più una Unione su cui cercare di esercitare una leadership.