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La crisi del “progressismo” italiano

Paolo Pombeni - 28.11.2018
Dario Corallo

C’è da stupirsi di un certo stupore con cui sono state accolte le parole di Romano Prodi che hanno espresso la banale constatazione che è impossibile appassionarsi alla competizione per la scelta del segretario PD visto che nessuno dei candidati presenta qualcosa che somigli anche vagamente allo straccio di un programma, ovvero di una proposta politica.

Che la competizione sia più che altro fra gruppi di professionisti politici che si confrontano semplicemente per il controllo della “macchina” (scassata, ma sempre tale è) sperando che lì stia la chiave di una ripresa elettorale è abbastanza evidente. Tuttavia ci si consenta di dire che è semplicistico prendersela con una classe politica che non ha capacità propositive, per la semplice ragione che le si chiede qualcosa che non è in grado di dare: non è il suo mestiere.

Anche un vero leader politico raramente di suo è un elaboratore di visioni. È invece un personaggio che riesce a raccogliere ed interpretare, vorremmo quasi dire ad incarnare, il lavoro che è stato fatto nelle sedi sociali in cui maturano le analisi e le proposte su quanto sta accadendo nelle vicende di un paese e del mondo. Se questo è vero, allora la domanda da porsi è come mai nella situazione attuale manchino le “sorgenti” a cui possono attingere coloro che aspirano alla leadership di una formazione politica che pure ha un ruolo e un passato che potrebbero essere di qualche significato.

Leggiamo in giro lamentele perché l’attuale dibattito nella campagna per le cosiddette “primarie” (che tecnicamente tali non sono) del PD è dominato da una serie di banalità: tornare ad essere “de sinistra” (romanesco d’obbligo); tenere conto del bisogno di “sicurezza”; andare verso le “periferie”. Roba che sta fra il tentativo di fare il verso al populismo degli avversari (dove si arriva al limite del paragrillismo dell’ineffabile candidato Corallo), e la rincorsa alle intemerate che si ricevono dagli editorialisti della stampa simpatizzante e d’opinione.

Nessuno che abbia il coraggio di dire che il problema non è in questo bla bla da talk show. Il problema è che siamo davanti alla crisi del “progressismo” italiano, cioè di quell’area che connetteva varie appartenenze partitiche (e anche non partitiche), la quale in passato si era misurata razionalmente col tema del grande cambiamento economico, sociale, culturale che aveva interessato l’Italia dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del secolo scorso. Pur con tutti i limiti propri delle cose umane c’era stato allora un fervore di iniziative che volevano non solo capire quanto stava avvenendo, ma anche governare i fenomeni usando quel che le analisi mettevano in campo.

È stata una stagione importante in cui le classi politiche, tutte, dai democristiani, ai “laici”, ai socialisti, ai comunisti, hanno approfittato di questo humus per realizzare quel tanto o poco di “buon governo” che il nostro paese ha conosciuto. Ad un certo punto questo humus si è disseccato e sarebbe interessante capire perché. È subentrata la società dello spettacolo, è tornata in auge la vena catastrofico-pessimista che ha lunghe radici nell’intellettualità italiana. Tutto ciò mentre, per usare una metafora, la storia ricominciava a correre, e le analisi rimanevano ferme a prima che questo avvenisse, anzi si ostinavano a sostenere che in fondo si stavano portando a compimento processi che esse avevano previsto e che non c’era nulla di nuovo a cui rispondere.

Ciò che definiamo il “progressismo” italiano è finito ibernato da questa dinamica. Si è dato per scontato che quelli che avevano interpretato la storia precedente e i loro epigoni fossero per diritto divino destinati a guidare anche il periglioso presente e che se così non accadeva la colpa era di una momentanea distrazione della mano invisibile che guida la teleologia del progressismo. Qualcuno si ricordi della incapacità di comprendere il fenomeno del berlusconismo.

Non ci si dovrebbe dunque meravigliare se in assenza di analisi serie sulle difficoltà del presente, la gente che le subisce cerca risposte nelle “fughe in avanti” (o indietro) che propongono i vari populismi (e per inciso ci si consenta di dire che non capiamo perché il populismo dovrebbe essere di un solo tipo). In mancanza di un’area forte e solida di progressismo, nella debolezza assoluta delle sedi in cui si dovrebbe elaborare l’analisi della grande transizione in cui siamo immersi (dalle università, alla stampa, ai cosiddetti think tank, più o meno superstiti di un passato glorioso), non ci si può aspettare che i professionisti della politica siano capaci di supplire da soli a questo vuoto. Certo una parte non piccola di essi vorrebbe far credere di poter fare da soli, ma sono apprendisti stregoni che fanno più che altro pasticci.

Sarà possibile in questo contesto una ripresa della tradizione forte del progressismo italiano? La spinta difficilmente verrà da coloro che nella crisi attuale di quella tradizione hanno fatto il nido e che non vogliono concorrenti che mettano in discussione la loro posizione. Paradossalmente c’è la probabilità che essa sia attirata dal mettersi al servizio delle nuove classi dirigenti portate al potere dal populismo, quando queste, smaltita la sbornia di un successo occasionale, dovranno dotarsi di qualche strumento per governare un mondo complicato che non può essere mandato avanti a colpi di slogan.

È già successo e non è detto non si ripeta, ma è anche successo che poi quel che si era innescato per questa via contorta abbia ritrovato le strade appropriate per esercitare la sua funzione. C’è da sperare che il processo sia meno lungo di quanto avvenuto in passato.