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17 aprile 2024
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La battaglia sul governo e la torta della spesa pubblica

Luca Tentoni - 27.06.2020
spesa pubblica

Mai come ora, negli ultimi venticinque anni, un governo ha potuto disporre di risorse ingenti (anche se tutte in deficit e per un periodo breve, in una circostanza del tutto eccezionale). Non è una novità di poco conto: stretti fra le necessità di tenere i conti dello Stato in ordine, con un rapporto fra debito e PIL ben oltre il 100%, gli Esecutivi della Seconda Repubblica hanno potuto osare poco (anche se, dopo la parentesi di Monti, hanno a nostro avviso speso e osato fin troppo, dagli ottanta euro di Renzi al reddito di cittadinanza e a quota 100 per le pensioni, tanto per parlare delle principali iniziative di spesa pubblica a fini elettorali). Per certi versi, il limite all'espansione della spesa ha rappresentato un impedimento ai progetti delle maggioranze, mentre per altri hanno evitato - o meglio, limitato - "assalti alla diligenza" da parte di singoli parlamentari e delle categorie socioeconomiche. C'è stato, però anche un "self restraint", cioè il richiamo ad un senso della misura. Purtroppo, quasi mai si è investito in futuro (scuola, sanità, ricerca, occupazione) ma spesso, invece, lo si è fatto per iniziative immediatamente paganti in termini di consenso. Oggi, la notevole mole di potenziale spesa a disposizione del governo Conte provoca appetiti non solo malcelati, ma talvolta palesi (quelli delle categorie; Confindustria non si è tirata indietro nel fare richieste esplicite se non ultimative, per esempio). Così, se per decenni un governo veniva in un certo senso deresponsabilizzato, perché bastava dire che non c'erano spazi e fondi ma solo tagli più o meno lineari, ora la torta è grande. Di qui anche le manovre intorno al governo, perché è evidente che la linea giallorosa (in certi casi più gialla che rosa) è del tutto contrastante con quella di un nuovo governo di larghe intese (o almeno aperto a Lega e Forza Italia) che avrebbe ben altre priorità di collocamento dei fondi. Si discute, per esempio, sul contrasto fra tagli all'Iva o all'Irpef o all'Irap (non sono la stessa cosa: fanno la differenza, anzi sono alla base di precise visioni di politica economica). Ora che il governo della Repubblica non ha più la scusa di non poter decidere, deve farlo. Ma, nell'agire, rischia di non raggiungere intese soddisfacenti al suo interno, per non parlare delle pressioni esterne: quelle delle opposizioni sono molto più flebili (non potendo basarsi sull'antieuropeismo e limitandosi ai "classici", come il condono - o "pace", naturalmente eterna e generosa - fiscale) mentre l'offensiva del "quarto partito" sembra poderosa. Non solo perché trova sponda in alcuni organi di stampa di un certo peso sull'opinione pubblica, ma anche perché in Parlamento può contare su qualche benevolenza da parte di settori dell'opposizione e di partitini della maggioranza. Se già a febbraio, prima dell'epidemia di Covid-19, qualcuno aveva deciso che il tram di Conte si sarebbe dovuto fermare e che il manovratore avrebbe fatto bene a scendere (come si disse nel 1989 al congresso del Psi, quando si affermò il CAF, l'asse fra Craxi, Andreotti e Forlani in funzione anti-demitiana e anti-sinistra Dc), il lungo intervallo della gestione dell'epidemia (con inatteso e forse eccessivo rimbalzo in positivo dell'immagine del presidente del Consiglio) ha solo spostato all'estate la prospettiva di un Esecutivo diverso. Ora che siamo nella "fase tre" è il momento, per alcuni, di prepararsi ad assestare al governo (il quale, fra iniziative di pura spettacolarità come gli Stati generali dell'economia, ci ha messo ampiamente del suo per peggiorare la propria credibilità) la spallata finale. Il tentativo in atto sembra articolato in più microiniziative, volte a saggiare i possibili punti deboli della maggioranza. In primo luogo in Senato, dove per poco il governo non ha visto affondare il decreto sulle elezioni regionali; in secondo, la pressione per  arrivare il più presto possibile ad un voto sul "Mes sanitario" (che i Cinquestelle dovrebbero smettere di avversare, in nome non solo di una realpolitik della quale hanno già dato prova in altri frangenti, ma anche del buonsenso) che potrebbe mandare in pezzi la maggioranza; in terzo luogo, la maldestra richiesta, da parte del sindaco di Bergamo Gori, ex renziano, di cambiare segretario al Pd (quando, forse, ci sarebbe qualcosa di più urgente e importante di cui occuparsi, anche perché Zingaretti è atteso alla prova delle regionali e forse dovrebbe avere tempo a disposizione per essere giudicato); in quarto luogo, il tentativo - attuato anche con piccole "vendette", come quella contro il presidente della Puglia Emiliano, già principale avversario di Renzi al tempo del referendum sulle trivellazioni - di impedire (con candidature di bandiera destinate a fare più o meno il gioco del centrodestra) al centrosinistra di uscire meno malconcio del possibile dalle prossime elezioni regionali (la sconfitta del Pd metterebbe il partito con le spalle al muro, facilitando a quel punto la crisi di governo e la ricerca di nuovi equilibri). L'obiettivo è un Esecutivo guidato da Draghi; o, meglio, lo era, perché in questa fase i nomi che circolano sono di esponenti del Pd o del campo giuridico-istituzionale. Del resto, un governo di ampie intese per affrontare l'emergenza economica può essere la soluzione, ma non è detto che lo sia; dipende molto dalle premesse, dalle persone e soprattutto dalle intenzioni di chi lo vorrebbe far nascere. Perché se a Palazzo Chigi arrivasse Draghi, non è affatto certo che il nuovo presidente del Consiglio si farebbe dettare l'agenda da soggetti politici (Salvini, per esempio) o economici: quasi certamente, saprebbe autonomamente in quale direzione agire. Ma, a quel punto, potrebbe redistribuire la torta della spesa pubblica in un modo un po' diverso da quanto ci si attende. Ecco perché, mentre alcuni sperano che Conte si tolga di torno, anche la figura dell'ex presidente della Bce si va sbiadendo, nella corsa (ad ostacoli) verso un "governissimo" che potrebbe anche non riuscire a nascere.