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27 marzo 2024
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La battaglia del Quirinale: obiettivo Renzi

Paolo Pombeni - 06.01.2015
Renzi al Quirinale

Seguendo quanto sta accadendo nelle ultime settimane abbiamo l’impressione che l’obiettivo della battaglia per il Quirinale non sia quello di eleggere un degno successore di Giorgio Napolitano, ma sia piuttosto quello di azzoppare Renzi. E di farlo in maniera tale da rendere difficile il mantenimento da parte sua della centralità politica.

Sgomberiamo subito il campo da una obiezione: ma se si vuol azzoppare Renzi ci sono tanti altri modi per farlo, considerando i non pochi provvedimenti chiave che sono sul tappeto (riforma elettorale, del senato, della pubblica amministrazione, ecc.). Il particolare in questo caso è che battere il disegno di Renzi su uno di questi terreni significa andare alla crisi di governo. Un esito che, se si eccettuano alcuni estremisti, si sa di non potersi permettere: innanzitutto perché non si saprebbe come sostituirlo e si correrebbe il serio rischio di elezioni anticipate; in secondo luogo perché, con l’aria che tira (tanto per dire una cosa sola: le elezioni di fine gennaio in Grecia), ci sarebbe la quasi certezza di una impennata della crisi economica, cosa che il paese farebbe pagare caro a chi l’ha provocata.

Con le votazioni per il Quirinale quel rischio non si corre, perché semplicemente l’attuale premier non può “mettere la fiducia” su un suo candidato. Invece una sconfitta della strategia renziana, vuoi solo con un logoramento parlamentare, vuoi con l’imposizione di un candidato scelto fuori dalla rosa che il premier propone, non farebbe cadere il governo, ma ridimensionerebbe non di poco la leadership attuale. Si aggiunga, e gli strateghi di questo complotto ce l’hanno ben presente, che si può anche contare sulla reazione certo non tranquilla del premier sconfitto e dunque su qualche suo scivolone che lo indebolisca ulteriormente.

Naturalmente questa prospettiva non ci rivela una strategia particolarmente intelligente, perché un governo debole e risentito non è quello che serve al paese per approfittare di quelle piccole opportunità di ripresa economica che sembrano all’orizzonte e perché le conseguenze di un “Vietnam parlamentare” sull’elezione del Capo dello Stato durerebbero a lungo nel tempo consegnandoci delle Camere non solo ingovernabili, ma anche inaffidabili. Aggiungiamoci che in uno scenario di questo tipo il futuro inquilino del Colle si troverebbe a gestire un passaggio assai difficile e avrebbe qualche difficoltà a farlo decretando la fine della legislatura, perché avere quello come primo atto rilevante del suo settennato non sarebbe proprio la cosa migliore.

Renzi e i suoi sono consapevoli del quadro che hanno davanti, ma da un lato sembrano pensare che l’esito delle strategie contro di loro sia tanto devastante da renderlo improbabile (assomiglierebbe troppo al suicidio collettivo di una classe dirigente), e dall’altro ritengono di avere delle alternative abbastanza allettanti da offrire. La principale è la convergenza di una maggioranza sufficientemente ampia su un candidato che dia garanzie di non diventare, come avvenne nel caso di Napolitano sebbene all’inizio nessuno potesse prevederlo, il punto di riferimento della politica internazionale e, se non sempre dell’opinione pubblica generale, delle classi dirigenti del paese.

In fondo è questa la mediazione che Renzi sembra immaginare innanzitutto per ricompattare il suo partito. Alcuni osservatori pensano che l’interesse della minoranza del PD sia quella di spingere per un candidato “forte” che faccia da contraltare all’attuale premier. Tuttavia non si tiene conto che un candidato di quel tipo dovendo poi scegliere fra l’appoggiare un leader che comunque sa fare presa sull’opinione pubblica provando almeno a cambiare le cose e il prestarsi alle pulsioni di minoranze confuse e scarsamente capaci di proporre una visione che possa trovare consenso non solo nel paese, ma anche a livello internazionale, sceglierebbe inevitabilmente, magari senza troppo entusiasmo personale, la prima alternativa.

Dunque su alcune candidature “da mediano”, per evocare un’immagine scontata, si potrebbe trovare l’assenso almeno dei capi più lucidi della minoranza interna al PD e su questa base ci si potrebbero tirar dietro anche i vertici di FI e delle varie componenti centriste, chiudendo così il cerchio. Ciò consentirebbe una elezione in tempi brevi (fra la quarta e la quinta votazione) con uno scenario che potrebbe accontentare molti: Renzi e i suoi perché avrebbero dimostrato di saper governare il passaggio difficile; i suoi avversari perché comunque potrebbero far valere che il premier alla fine ha dovuto “ridimensionarsi” per non finire azzoppato.

La debolezza di questo scenario sta in due variabili che non sono definibili a priori. La prima è data dal fatto che è imponderabile come si comporterà chi sarà stato eletto una volta entrato nel ruolo, perché occupare quella sede pone in una posizione di sistema e di relazioni che cambiano gli approcci delle persone (e, in definitiva, pongono comunque il presidente di fronte alla necessità di assumersi responsabilità in prima persona a cui non potrà sfuggire). La seconda variabile è data dalle dinamiche delle votazioni in assemblea, dove entrano in gioco fattori psicologici, pressioni del sistema mediatico, riflessi dovuti all’andamento del confronto fra le varie componenti.

Insomma, lo scenario futuro è ancora da disegnare.