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01 maggio 2024
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Il viaggio di Felipe González a Caracas

Luca Costantini * - 20.06.2015
Felipe Gonzàlez

Nell’estate del 1976, durante gli incontri del Partito Socialisa Obrero Español (Psoe), Felipe González, all’epoca poco più che trentenne, avvertiva sull’ipotesi che la giovane democrazia spagnola emulasse lo «scenario italiano» del dopoguerra. González temeva il sorpasso del partito comunista di Carrillo e più in generale un accordo di quest’ultimo con il partito di centro di Adolfo Suárez, sullo stile del compromesso storico. Comprese che il Psoe doveva disincagliarsi dalla retorica ribellistica, e proporsi come forza egemonica della sinistra sulla base di un progetto revisionista.

Dapprima agì per consolidare la sua leadership all’interno del Psoe. Limitò il peso delle federazioni regionali, promosse una politica moderata a livello sindacale, rinunciò a Marx e adottò i principi politici della cultura social-liberale (la stessa che in quegli anni andava proponendo invano Norberto Bobbio in Italia). Libertà e cambiamento divennero i termini più utilizzati dai socialisti spagnoli fino a che, nel 1982, riuscirono a conquistare il potere. Vi rimasero fino al 1996, facendo della Spagna un paese moderno, europeo e democratico.

I risultati di quell’epoca fortunata sono evidenti ancor oggi. La Spagna è la quarta economia continentale, ha indici di turismo altissimi e un settore produttivo di punta come l’agroalimentare. Dal punto di vista della ricerca è un paese avanzato, e in quanto a infrastrutture può pienamente considerarsi un paese sviluppato. La Spagna, vale la pena ripeterlo, non è la Grecia. Eppure, del miracolo spagnolo qualcosa non è andato bene se pensiamo che alle ultime elezioni amministrative di maggio i partiti che si dicono contrario al consensus del 1978 [anno della firma dell’attuale costituzione] hanno conquistato le principali città del paese iberico. Qualcosa non è andato bene se nelle regioni periferiche i partiti nazionalisti crescono a dismisura, e se la corruzione ha indebolito così tanto il Psoe e il Pp, i partiti promotori dell’ammodernamento spagnolo degli ultimi anni. Qualcosa non è andato bene se è diventato di moda insultare e fischiare l’inno spagnolo ad ogni evento sportivo, riaprendo un dibattito forzoso e sterile sulla forma di Stato, o sugli strascichi della guerra civile del 1936-39.

Felipe González, che resta una delle voci più autorevoli del partito socialista spagnolo, la settimana scorsa è andato a Caracas per sensibilizzare l’opinione pubblica sugli arresti politici di Maduro, ma ne ha approfittato per svegliare le coscienze della sinistra spagnola sul pericolo del populismo. Ha rivolto una critica al segretario del Psoe, Pedro Sánchez, per aver dato il visto buono ad accordi di governo con le liste civiche che orbitano attorno a Podemos in importanti centri urbani spagnoli come Madrid, Valencia o Barcellona. Il suo disappunto si è manifestato con queste parole: «Non si possono formare maggioranze solo per occupare le istituzioni. Le maggioranze devono dare stabilità e coerenza all’azione di governo».

I primi problemi con il “Podemos di governo” si sono fatti notare poco dopo l’insediamento degli indignados nel comune di Madrid. Lunedì è venuto fuori che un consigliere di Podemos – più precisamente il consigliere alla cultura nella capitale – aveva scherzato tempo fa su Twitter con barzellette sull’Olocausto e sulle vittime degli attentati dell’ETA. Un decalogo di alta politica che obbligò il candidato socialista a chiedere le dimissioni – poi ottenute – del nuovo consigliere comunale solo due ore dopo aver votato la fiducia alla candidata di Podemos. Si aggiunga a ciò che mesi prima, quando Nicolás Maduro stava arrestando il sindaco di Caracas Antonio Ledezma, i dirigenti del partito di Pablo Iglesias (Podemos) erano impegnati a rispondere alle denunce per presunti finanziamenti illeciti provenienti dal Venezuela, e tacevano sia su quel caso sia sugli attacchi a giornalisti come Teodoro Petkoff, il direttore di «Tal Cual» (www.talcualdigital.com), al quale il regime Maduro aveva proibito andare a Madrid a ritirare il premio di giornalismo Ortega y Gassett 2015, per timore che non tornasse più. Petkoff dovette aspettare l’arrivo di González a Caracas per ricevere il premio di persona.

Durante il suo soggiorno, Maduro riuscì a impedire la visita di González a Leopoldo López, uno dei leader dell’opposizione al regime, attualmente in sciopero della fame. L’erede di Hugo Chávez incoraggiò i media locali a insultare il leader socialista con parole come «corrotto», «lobbista delle multinazionali», «promotore del terrorismo di Stato», «essere oscuro», «responsabile della morte di giovani torturati». Al suo rientro, González non nascose la «preoccupazione» e la «tristezza» per la situazione venezuelana, e non risparmiò una battuta tagliente sui dirigenti di Podemos, definiti i «chierichetti di Maduro».

Il viaggio di Felipe González a Caracas va interpretato come un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica e richiamare l’attenzione del suo partito e della sinistra europea sul dramma venezuelano. Lo scrittore peruviano premio nobel Mario Vargas Llosa è stato colui che forse più d’ogni altro ha captato il messaggio. Vargas Llosa ha elogiato l’esemplarità e il coraggio di González e gli ha dedicato un articolo apparso sul quotidiano «El País» domenica scorsa, dal quale vale la pena tradurre un ampio frammento per riflettere sulla tragedia venezuelana con la stessa forza critica con cui, esattamente quarant’anni fa, veniva condannata politicamente e moralmente la dittatura cilena di Pinochet: «L’effetto più importante del viaggio di González a Caracas è stato [il messaggio] che ha dato alla sinistra latinoamericana ed europea. Perché è tra loro, e non solo nei gruppi e gruppuscoli più radicali e antisistema, dove si trovano settori che, nonostante le sofferenze causate dal chavismo, provano simpatia per questo regime e si resistono a criticarlo e a riconoscere ciò che è: una dittatura in crescendo, la cui politica economica e la corruzione generalizzata hanno impoverito terribilmente il paese, che oggi ha l’inflazione più alta del mondo, indici di criminalità e di insicurezza tremendi, e dov’è praticamente scomparsa la libertà d’espressione e dove le violazioni dei diritti umani si susseguono giorno dopo giorno».

 

 

 

 

* Dottore di ricerca presso l'Università di Bologna. Stagista presso "El Pais" di Madrid