Il richiamo della foresta
Tutti a interrogarsi su cosa abbia determinato la virata del premier Conte verso un’immagine da severo uomo delle istituzioni, fino a spingere qualcuno a parlare di un novello Monti forgiato in qualche officina dei ceti dirigenti (al Quirinale?). Su quella china si è immaginato una specie di commissariamento del governo con la triade Conte-Tria-Moavero per marginalizzare i due azionisti della maggioranza. Che ci sia una certa inclinazione in quelli che i polemisti anti-establishment chiamano “i giornaloni” ad accreditare questa possibilità può anche essere, ma temiamo sia più la ricerca di una speranza di sottrarsi al destino della preminenza di Salvini, che non l’analisi di quanto sta realmente succedendo.
A noi sembra che nella nuova situazione che si è delineata dopo la recente orgia elettorale più banalmente ciascuno risponda ad una sorta di richiamo della propria foresta di provenienza. Sono costretti a farlo da un contesto che non consente per ora il passaggio chiarificatore della crisi di governo, la quale però resta sullo sfondo come ciò con cui prima o poi si dovranno fare i conti.
Ecco dunque che il presidente Conte pensa al dopo, quando difficilmente potrà avere ancora un ruolo politico e dovrà tornare al suo mestiere, cioè a quello del grande avvocato al servizio delle classi dirigenti del paese. Queste, come è naturale, non vedono di buon occhio l’avventurismo giallo-verde e temono molto uno scontro con la UE che farebbe pagare un prezzo salato alla nostra economia che già non naviga in buone acque. Dunque se vuole ritornare ad essere accolto in quello che era il suo ambiente di provenienza, il premier non può macchiare la sua immagine con il sostegno a politiche economiche palesemente perdenti, ma soprattutto deve giocare la parte che gli affidano quelli che in altri contesti si potevano chiamare i poteri forti, e cioè il capo negoziatore che costruisce un accordo con Bruxelles. In questo lavoro l’asse col ministro Tria è indispensabile, perché anche l’economista romano è espressione di ambienti responsabili, che sanno fare i conti e valutare gli spazi di manovra di cui può disporre il nostro paese.
Naturalmente il supporto di organi di informazione qualificati conforta il presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Economia che sanno bene quanto sia importante presentarsi al tavolo delle trattative europee con il consenso dell’establishment più che con quello di una quota per quanto rilevante dell’elettorato. Più complessa è la questione del presunto appoggio quirinalizio che Conte lascia intendere. Il Presidente della Repubblica non è certo lieto di vedersi identificato con una componente dell’instabile equilibrio governativo, non da ultimo perché sa benissimo che toccherà poi a lui gestire la successione di quell’esecutivo e, dato per scontato che non avverrà in un clima disteso, l’ultima cosa che può auspicare è gestire quella trattativa con l’immagine del padre che deve sostituire un suo figlio prediletto (anche perché non è affatto così nella realtà).
Non si deve sottovalutare però che anche Salvini e Di Maio sentono il richiamo delle rispettive foreste. Il primo sa bene che la Lega ha avuto un grande successo, ma che deve consolidarlo se non vuole che gli si sciolga fra le mani come è accaduto a quello del PD o a quello del M5S. Il suo problema è che ha messo insieme un consenso variegato, che non è facile amalgamare. Da un lato ha raccolto una specie di fiducia in bianco da quella parte del paese che vuole vedere la riapertura della fase di interventi nel campo economico. La vicenda della TAV è emblematica, perché ha visto emergere chiaramente la marginalità degli estremismi bloccardi, che in Piemonte sono stati dovunque sconfitti. Dall’altro lato però non pochi voti gli sono venuti dal richiamo che esercitano sugli elettori gli slogan populisti e barricadieri: è questa la quota di votanti su cui si esercita per lui il richiamo della foresta, perché sa bene che è questa componente ciò che gli dà quel surplus di voti che lo pone in posizione assolutamente dominante. Di conseguenza non può “normalizzarsi” come gli chiederebbero parti non marginali delle classi dirigenti, ormai convinte che comunque alla sua egemonia non ci sia alternativa.
Di Maio si trova in una situazione a dir poco imbarazzante, perché la sua “foresta” di origine si sta disseccando. I recenti ballottaggi hanno mostrato con tutta evidenza che M5S è ridotto ad un partito di leader nazionali più o meno mediatici, mentre sul territorio il partito si sta liquefacendo, salvo qualche sporadica eccezione. La conseguenza evidente è che Di Maio è completamente nelle mani di Salvini, che è il solo che può mantenerlo in sella consentendogli di partecipare alla divisione delle spoglie che il potere può mettere a disposizione, ma anche di sedere al tavolo importante del governo mantenendo l’immagine di uno che conta. Il prezzo è ovviamente una sostanziale resa su tutti i temi importanti che stanno a cuore al leader della Lega, il quale però sa bene che a sua volta deve dare qualcosa in cambio per tenersi un alleato così utile, per cui non lesina qualche spazio per alcune misure simbolo che stanno a cuore ai Cinque Stelle (tipo il salario minimo).
Il contesto in cui veniamo a trovarci è abbastanza surreale. Abbiamo un governo ingovernabile che invece di essere una sede per promuovere la ricerca di un equilibrio nella attuale transizione politica sta divenendo la camera di scoppio delle sue contraddizioni.
di Paolo Pombeni
di Stefano Zan *