Il populismo, i nodi e le bandierine
Sono venuti al pettine i nodi della situazione politica che voleva promuovere il governo giallo-verde? Per certi aspetti sì e per altri no. È tipico di qualsiasi contesto populista e di questa specificità si fatica a rendersi conto.
La prima fase è stata quella delle “bandierine”, cioè di una sfilata infinita di prese di posizione intorno a slogan la cui sostenibilità quanto a traduzione in misure concrete non era mai stata studiata. Tuttavia l’importante per i due partiti al governo era far sapere forte e chiaro che loro avrebbero provato ad andare all’assalto alla baionetta delle trincee dell’odiato sistema. L’impresa si è risolta in una strage degli assalitori? Non importa, cade la carne da cannone come da manuale, i generali sbandierano l’eroismo di aver gettato il cuore oltre l’ostacolo.
Poi è arrivata la seconda fase, che è quella in cui si deve valutare se vale la pena di rinunciare a tutto quel che si è guadagnato (le poltrone governative) per il gran gesto di immolarsi sul campo di battaglia. Anche qui come nella più classica di queste storie si è riscoperta la virtù della ritirata strategica, che però tale è se viene sempre spacciata appunto come strategica, cioè, nell’immaginario che si vende al popolo, arretro per prendere nuovo slancio nell’attacco.
E’, fuor di metafora, quanto sta accadendo con la gestione della legge di stabilità. Sempre come da copione per gestire la nuova fase bisogna far spazio ad un nuovo generale, ed ecco la metamorfosi, almeno apparente, del presidente Conte. Da gestore anche abbastanza scialbo del famoso contratto è passato ad essere forza negoziale accreditata sui tavoli europei ed internazionali. Difficile sapere se sia solo rappresentazione strumentale favorita anche dai due azionisti del governo o effettiva crescita di una figura che ha capito bene che non avendo di suo truppe da mobilitare può guadagnare dall’avventura in cui è finito solo accreditandosi come la versione ragionevole e responsabile della svolta italiana. L’impresa non è particolarmente ardua visti i competitori e avesse solo un po’ più di capacità di presenza pubblica e di comunicazione (doti di cui è assolutamente carente) potrebbe anche guadagnarsi un futuro.
Naturalmente sarebbe interessante sapere se davvero dietro questa evoluzione o metamorfosi (scegliete voi) ci sia uno spessore del personaggio che non si era colto o un intenso lavoro di uno staff della presidenza che va ben oltre il mitico e poco politico Casalino (e già una marginalizzazione di costui sarebbe indice di un’uscita di Conte dal recinto pentastellato per un avvicinamento agli ambienti più responsabili della Lega, come si insinua in alcuni retroscena).
Dunque l’evoluzione in corso potrebbe portarci ad un accomodamento con l’Unione Europea, magari sistemando la portata del deficit al 2%. Qualcuno poi dovrà spiegarci che senso aveva fare a cornate con Bruxelles sul 2,4% per poi accettare un 2% che non ci pare molto lontano dal 1,9% che aveva ipotizzato Tria all’inizio. Saranno anche “numeretti” ma qualcosa vorranno pur dire, visto che il giochetto ci è costato svariati miliardi in termini di effetto dello spread e di scompaginamento del quadro economico.
Tutto questo darà un colpo alla tenuta del governo? Ne dubitiamo per due semplici ragioni. La prima è che non essendoci alternative la strategia dell’opposizione profonda dei gruppi dirigenti del paese non è far cadere il governo, ma ridimensionarlo: fuori le componenti avventuriste e timone in mano alla componente più realista, quella che, tanto per essere chiari, vuole investire in infrastrutture e gestire l’economia lungo parametri abbastanza tradizionali. Per il resto un po’ di sceneggiate parolaie su questo o su quello sono anche disposti a tollerarle.
La seconda ragione è che il consenso populista non è intaccato da queste vicende, perché riposa su un elettorato che non coglie quanto sta succedendo. Anche qui si ragioni con freddezza. Prendiamo l’esempio dello scandalo per la vicenda del padre di Di Maio e del parallelo che l’opposizione ha fatto coi padri di Renzi e della Boschi. Ora per la gente Di Maio padre ha fatto più o meno quello che normalmente vedono fare tutti: in una piccola impresa ha assunto gente in nero, ha fatto qualche “normale” abuso edilizio. Il figlio non poteva certo considerarlo anormale e disconoscerlo come padre, perché il suo rigetto era verso “il sistema” non verso la realtà quotidiana. Il genitore della Boschi era invece al vertice di una banca e, vuoi per incapacità o per altro, si faceva coinvolgere in un fallimento che distruggeva ricchezza, mentre la figlia si interessava per vedere se fosse possibile metterci una toppa sfruttando alla sua posizione ministeriale. Roba da “elite”, non da gente normale. Qualcosa di simile per le vicende di babbo Renzi. Ecco perché la gente non si scandalizza per i “normali” e vuole al rogo gli “ottimati”.
È il populismo bellezza, si direbbe con frase abusata e con questo bisogna fare i conti.
di Paolo Pombeni
di Stefano Zan *