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Le banche tossiche

Michele Iscra * - 02.12.2017
Banche e Casini

La commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche si sta rivelando quel si temeva che fosse: un inutile tribunale politico dove si fanno poche inchieste e si gridano tante denuncie. Il problema della crisi del nostro sistema bancario è una cosa estremamente seria e meriterebbe di essere sviscerata a fondo per capire non solo come mai ci siamo ridotti così (il che non è neppure tanto difficile da capire), ma soprattutto perché non si è riusciti ad evitare una fine così ingloriosa e quindi come si potrebbe evitare che crisi del genere si ripetano in futuro.

In fondo quando ci furono altre crisi bancarie assai gravi, lo scandalo della Banca Romana a fine Ottocento, i fallimenti a stento evitati delle grandi banche che erano anche banche d’affari nel passaggio fra anni Venti e Trenta del secolo scorso, si rispose con riforme di sistema: la fondazione della Banca d’ Italia (1893) come unica banca di governo della moneta, e le leggi bancarie del 1926 e 1936 che ne rafforzarono il ruolo e che misero in capo all’Iri il ruolo di finanziatore dell’industria togliendo alle banche le partecipazioni industriali dirette. Nulla di simile sembra interessare ai nostri politici che si affannano semplicemente, nonostante gli sforzi del presidente Casini, ad usare la commissione d’inchiesta come una tribuna mediatica per allungarsi reciprocamente accuse e colpi bassi.

Stabilire chi siano stati i colpevoli dei dissesti che hanno fatto tremare il nostro sistema creditizio (e le scosse di assestamento si sentono ancora) è relativamente importante da un punto di vista politico. Non perché chi ha la responsabilità di comportamenti illeciti rimanga impunito, ma perché a quello dovrebbe provvedere la magistratura: truffare i risparmiatori e gli azionisti è un reato e come tale va perseguito nelle apposite sedi. Ciò che invece dovrebbe interessare è capire almeno due cose: 1) come sia stato possibile che alla testa di istituzioni delicate come sono degli istituti di credito siano finiti personaggi che vanno dall’impreparato al deviante; 2) come si possa riportare sotto controllo un sistema in cui palesemente i meccanismi di sorveglianza non hanno funzionato, per cui è necessario predisporne di più efficaci.

Non sappiamo cosa ci si stia dicendo al proposito nelle sedi che operano fuori del polverone mediatico. E’ probabile che qualcuno questi problemi se li stia ponendo, ma ci chiediamo se davvero in questo caso non sarebbe importante per la gente sfruttare l’effetto annuncio. Non fosse altro che per contrastare quell’effetto annuncio che è già all’opera come suol dirsi alla grande e che consiste nel gettare nel tritacarne la credibilità di Bankitalia e della Consob.

Alla prima domanda non dovrebbe essere difficile più di tanto dare risposte. Se è vero che le banche sono istituti privati, non lo sono meno, che so, gli studi medici o quelli degli avvocati. Così come non è possibile che chiunque apra uno di quegli studi autocertificandosi le competenze necessarie, così non si dovrebbe trovare strano che per sedere nel consiglio di amministrazione di una banca, magari con incarichi di vertice, fosse necessario esibire un curriculum con competenze specifiche vagliato da un organo legittimato a questo compito. In genere si obietta che il problema non è quello perché poi le strutture operative degli istituti sarebbero fatte da professionisti qualificati (magari con un passato in Bankitalia: non siamo riusciti a trattenere la battuta). Peccato che non si veda come gli amministratori potrebbero controllare davvero ed indirizzare quei professionisti se essi sono privi delle competenze specifiche per farlo.

Sappiamo invece benissimo che negli organismi dirigenti delle banche fallite c’erano molti personaggi i cui curricula più che competenze bancarie esibivano aderenze politiche o di appartenenze alle lobby dei territori in cui operavano. Ragionare su come evitare che si ripetano questi pasticci sarebbe piuttosto utile.

Quanto poi ai problemi della vigilanza, andrà pur affrontato il tema dei poteri che sono necessari per esercitarla. La cosiddetta moral suasion, il timore reverenziale verso chi incarna l’autorità, sono armi spuntate in una società in cui la sfrontatezza tende a diventare la regola. Intendiamoci: siamo ben consapevoli che ci si inoltra in un terreno scivoloso. Dare forti poteri di indagine e di sanzione ad organismi che, lo si voglia o meno, hanno di necessità un rapporto con l’autorità politica non è privo di rischi. Si capisce bene che un governo, come dire, “disinvolto” potrebbe anche spingere ad un uso poco appropriato di quei poteri di controllo e indirizzo che stanno in capo ad organismi in cui ha, come minimo, qualche potere di nomina. Benissimo: si prendano al proposito le dovute precauzioni, visto anche che non è che fino ad oggi qualche piccolo scivolone in queste materie non ci sia stato.  Alla fine però senza strumenti di intervento adeguati è inutile inventarsi dei controllori.

Insomma sarebbe da chiedersi se questa classe politica davvero sia incapace di rendersi conto che il problema non è buttare giù o tenere su Renzi e il suo giglio ormai non più magico, ma tenere su, se possibile, il paese che difficilmente potrà usare a fondo la ripresa che sembra avviata senza liberarsi di queste lotte politico-bancarie da basso impero.

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea