Ultimo Aggiornamento:
02 ottobre 2024
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Il Congo a più di cinquant’anni dall’indipendenza: condannato a un eterno déjà-vu?

Miriam Rossi * - 05.07.2014
Patrice Lumumba

Era festa ovunque il 30 giugno del 1960 a Leopoldville. Si celebrava l’affrancamento dal Belgio e l’agognata indipendenza della Repubblica Democratica del Congo. Sul palco presenziato dalle neo-elette autorità del Paese risuonavano parole di orgoglio per “la gloriosa storia della nostra lotta per la libertà che ha posto fine alla schiavitù umiliante a cui era costretta la popolazione”. E con il futuro dello Stato nelle mani del popolo, iniziava “una nuova lotta, una lotta sublime che porterà al nostro Paese pace, prosperità e grandezza. Noi potremo mostrare al mondo ciò che l'uomo nero può fare quando si lavora in libertà, e faremo del Congo l’orgoglio dell'Africa”.

 

Gli errori di valutazione di Lumumba


Che Patrice Lumumba, Primo Ministro del Congo-(futuro)Kinshasa, si fosse illuso di un deciso cambio di rotta del Paese allorché pronunciò quello sferzante discorso? In piena polemica con quei bianchi occidentali che, con una buona dose di ipocrisia, infarcivano i resoconti stenografici dell’ONU di professioni di fede nei diritti umani poi puntualmente calpestati nei territori coloniali o in amministrazione fiduciaria, e non solo, Lumumba probabilmente immaginava che l’acquisizione dell’indipendenza fosse necessaria e sufficiente per “autodeterminare” il futuro del Paese.

Non faceva però i conti con alcuni elementi. Il primo, la straordinaria ricchezza del Congo, non solo di minerali e idrocarburi, ma anche di terreni fertili e di acqua dolce. Il secondo, la già embrionale normativa in materia di tutela universale dei diritti umani promossa in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite non aveva ancora accolto e sancito normativamente il diritto all’autodeterminazione dei popoli, relegato a semplice principio di ispirazione generale nel cammino di accompagnamento degli Stati in amministrazione fiduciaria verso l’indipendenza. Infine, il terzo, l’ampiezza del territorio statale, pari all’intera Europa occidentale, sembrò quasi giustificare le spinte centrifughe di diversi territori, anche su malcelata ispirazione e induzione da parte degli stessi ex colonizzatori. E se pochi giorni dopo la concessione dell’indipendenza esplosero i primi disordini nel Paese, in meno di due settimane il Katanga proclamava la propria secessione dallo Stato centrale, appellandosi al proprio diritto all’autodeterminazione.

 

Un déjà vu nella 54° ricorrenza dell’indipendenza della Repubblica Democratica del Congo


A più di 50 anni da quei giorni, la Repubblica Democratica del Congo permane in uno stato di perenne déjà vu. I venti di secessione continuano a spirare sulla provincia del Katanga, che ha annunciato per questo mese una (nuova) dichiarazione ufficiale di indipendenza. I caschi blu dell’ONU seguitano a presenziare il territorio e a lanciare, in un continuo loop mediatico, allarmi sulla situazione sociale e militare della provincia, senza avere la forza di imporre alcun tipo di consolidamento della debole autorità dello Stato centrale, né di proteggere la popolazione civile dalle numerose milizie armate che gravitano sul territorio. Uno Stato che potrebbe senz’altro definirsi “fallito” a dispetto delle enormi ricchezze possedute, come ci ricordano le presenze del Congo negli ultimi posti di tutti gli indici di sviluppo umano. Dal 1960 neppure “pole pole” (in swahili "piano piano”) e mediante il sostegno della cooperazione internazionale, le dinamiche del Paese sembrano aver trovato una rotta nella direzione di un miglioramento delle condizioni nutrizionali, sanitarie ed educative della popolazione congolese, alla mercé di un governo centrale corrotto e facilmente corruttibile e di gruppi armati spesso al soldo di interessi e attori stranieri (tanto occidentali, quanto quelli dei paesi confinanti).

 

Allarme nella regione dei Grandi Laghi


Dopo i conflitti occorsi al volgere del millennio nella regione dei Grandi Laghi che hanno coinvolto le truppe di Rwanda, Burundi, Uganda, richiamate allora nella zona est del Congo a replicare le tensioni genocidarie tra hutu e tutsi, da settimane è di nuovo allarme. Non è passata inosservata all’ONU nella scorsa primavera la distribuzione di machete alla milizia burundese “Imbonerakure”, affiliata al partito del presidente in carica Pierre Nkurunziza. Una notizia che si unisce alla scoperta e neutralizzazione di un piano per assassinare il presidente ruandese Paul Kagame e avviare un secondo (e risolutivo) genocidio dei tutsi, a 20 anni esatti dalla tragedia. Come in passato, l’appartenenza etnica è strumentalizzata per coprire l’intento di altri Stati o gruppi di interesse ad avere accesso diretto all’aeroporto di Bakuvu e al sud della provincia congolese del Kivu, nonché chiaramente alle sue miniere.

Ancora una volta, la destabilizzazione del Congo può essere funzionale al controllo delle sue risorse, con nessun riguardo alla pace anelata in quel 30 giugno 1960 in cui si aspirava che essa sarebbe albergata “non su fucili e baionette, ma sulla concordia e sulla buona volontà”.

 

 

 

 

* Redattrice di Unimondo e Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali