I riflettori internazionali (di nuovo) sul sistema detentivo italiano

“Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Lo scrisse Voltaire a metà del Settecento ma non si sarebbe potuto esprimere diversamente Mads Andenæs col suo Working Group dell’ONU sulle detenzioni arbitrarie durante la visita effettuata in Italia dal 7 al 9 luglio scorsi. Per quanto sia universalmente accolto il principio secondo cui il sistema carcerario denota lo stato di diritto di un Paese, è invece con difficoltà che tanto i governi quanto la società civile percepiscono e identificano in un trattamento disumano o degradante, se non in una tortura, l’assenza di una serie di standard di tutela del detenuto. La costrizione, il disordine, l’“accatastamento di esseri umani” con ovvi limiti alla riservatezza delle persone, la carenza di strutture ricreative e sportive, spesso l’assenza di norme igieniche sono fattori che determinano una clamorosa incompatibilità con i parametri fissati non solo dagli standard internazionali quanto dall’obiettivo di “rieducazione del condannato” e di un autentico recupero sociale previsto dall’articolo 27 della Costituzione italiana.
I problemi strutturali del sistema di detenzione
Di certo in uno Stato come l’Italia, tra i principali ratificatori di convenzioni internazionali in materia di diritti umani in ambito universale (ONU) e regionale (europeo), l’assenza nel codice penale di una fattispecie del reato di tortura (a dispetto peraltro dell’entrata in vigore nel 1989 della Convenzione ONU in materia) costituisce una stridente contraddizione rispetto a tale conclamata volontà di tutela. A questa grave carenza si affianca un atteggiamento di colpevole disinteresse nella prevenzione della tortura e di trattamenti e punizioni crudeli, inumani o degradanti specie in ambiente carcerario, nonostante non manchino i richiami ad alto livello e a più di una voce, anche in occasione delle consuete visite internazionali di osservazione.
Il comunicato emesso dal Working Group dell’ONU, dopo l’ispezione alle carceri e ai CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) per verificarne lo stato, non manca di suggerire al governo italiano di adottare misure straordinarie come quelle alternative alla detenzione per porre fine al sovraffollamento delle carceri e per proteggere i diritti dei migranti. “Quando gli standard minimi (in materia di diritti umani) non possono essere garantiti in altro modo il rimedio è la scarcerazione” è scritto nero su bianco sul report rilasciato dagli ispettori e consultabile on line. Un ammonimento e un consiglio al contempo per eludere il reitero della condanna emessa nel gennaio 2013 dalla Corte Europea dei Diritti Umani nel caso Torreggiani, allorché le condizioni di vita dei detenuti degli istituti di detenzione di Busto Arsizio e Piacenza erano state giudicate, in base all’articolo 3 della Convenzione Europea, una violazione degli standard minimi di vivibilità, avendo ciascuno uno spazio vitale di meno di tre metri quadrati. La sentenza “pilota” della CEDU, oltre a dare un giudizio sul singolo caso, ha individuato un problema strutturale del sistema penitenziario italiano; in futuro e in assenza di una riforma sostanziale, i numerosi ricorsi alla Corte per analoghe violazioni saranno dunque ricondotti a questa condanna (con tutto ciò che esso potrebbe comportare anche in termini di riparazioni economiche del danno da parte dello Stato ai detenuti).
I primi risultati delle misure “svuota-carceri”
Parole che giungono dopo che agli inizi di giugno c’era stata una promozione dell’operato italiano da parte del Consiglio d’Europa con il riconoscimento dei primi “significativi risultati” ottenuti attraverso “le varie misure strutturali adottate per conformarsi alle sentenze”. Una promozione che è valsa la concessione all’Italia di un altro anno per dare piena soluzione ai problemi sollevati dalla condanna della CEDU. In questi mesi le misure “svuota-carceri” messe in atto si sono sostanzialmente sviluppate in un piano di più sistematico rimpatrio dei detenuti stranieri, di depenalizzazione del reato di clandestinità e di quelli minori connessi alla droga, di accordi per far scontare parte della pena dei detenuti tossicodipendenti in comunità dislocate in tutte le regioni del Paese, ma anche di trasferimento in massa di reclusi in istituti distanti dal luogo di residenza (ad esempio in Sardegna), di riduzione della durata delle pene e della custodia cautelate in carcere. Restano però insolute diverse questioni quali l’elevato numero di detenuti in attesa di giudizio, le condizioni di detenzione nei CIE, nonché la prassi dei “rimpatri sommari di individui, compresi in alcuni casi minori non accompagnati e adulti richiedenti asilo”.
Ancora una volta l’immagine drammatica e impietosa del sistema penitenziario restituitaci dagli osservatori internazionali, spia delle gravi carenze dell’intero sistema di giustizia, getta luce su un mondo generalmente ignorato dai mass media e dalla politica. Ma l’attuazione di misure emergenziali svuota-carceri può davvero dare una soluzione di lungo termine all’“irriformabile” sistema giudiziario italiano?
* Redattrice di Unimondo e Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali
di Claudio Ferlan
di Massimiliano Trentin *