I nodi al pettine
Discutere se il voto in Umbria abbia o no valenza nazionale è una disputa accademica: non dipende da quel voto in sé, ma da quanto ne scaturirà. Il problema è la tenuta del quadro politico che si è tentato di costruire dopo il dissolversi dell’alleanza gialloverde: se questo riesce a ritrovare le ragioni del nuovo assetto e si consolida il voto umbro verrà considerato un segnale di pericolo a cui è eseguita una pronta reazione; se quel quadro va a pezzi lo si considererà il primo passo verso un nuovo assetto stabile della politica italiana.
Al di là di quel che viene detto a favore di telecamere e taccuini dei cronisti, più o meno tutti sono consapevoli di questa banale verità. Il dibattito che si svolge fuori della luce dei riflettori riguarda infatti il tema di come si deve andare avanti “dopo” quel che ha rilevato il voto regionale del 27 ottobre. Ne discutono tanto i perdenti, cioè M5S e per converso il PD, quanto i vincitori, cioè in primis Salvini, ma anche Berlusconi e la Meloni.
La debacle a Cinque Stelle che si è registrata mostra, se si vuole guardare le cose con un certo realismo, la crisi profonda in cui versa un agglomerato di consensi raccolti intorno ad una generica ondata antisistema. Questo sentimento di protesta fondamentalmente qualunquista, e per ciò insieme di destra e di sinistra, non è riuscito a portare sulla scena una classe dirigente capace di trasformarlo in un progetto politico. Dilettanti allo sbaraglio hanno creduto che la conquista del potere consentisse loro di risolvere i problemi del paese, quelli che avevano spinto una quota significativa di elettori a votarli, imponendo come soluzioni slogan inventati per placare le ansie del pubblico. Ovviamente così non è stato, e il loro consenso si sta dissolvendo, in parte ritornando nella zona grigia del rifiuto di partecipazione (l’astensionismo), in parte dirigendosi verso quei partiti altrettanto populisti, ma più credibili come gestori della macchina pubblica (Lega e FdI).
Il Movimento Cinque Stelle è oggi di fronte al bivio: o affrontare la dissoluzione cercando di arginarla con un mitico ritorno al ruolo dei Pierini che ne sanno la classica pagina più del libro, o passare faticosamente a riordinarsi come forza che porta al potere una nuova classe dirigente che però è maturata abbandonando i velleitarismi delle origini.
Il problema è che questa forza in crisi profonda è il maggior partito presente nell’attuale parlamento e di conseguenza con questa crisi devono fare i conti tutti, ma in primo luogo le forze che si sono alleate con M5S. All’origine della passata crisi d’agosto stava per la Lega proprio questo fatto, e adesso il tema si ripresenta per il PD. Il partito di Zingaretti deve affrontare la spinosa questione se dare uno stop alla pretesa grillina di piantare le proprie inutili bandierine dovunque a rischio di far saltare la legislatura o continuare a sopportare nella speranza di tirare fino all’elezione del successore di Mattarella.
Di Maio dice, con rara inconsistenza, che il movimento è lì per raggiungere i suoi fini. Peccato che quelli sbandierati (tipo riduzione numero parlamentari, manette agli evasori e persino reddito di cittadinanza) come frutto lo abbiano portato a ridursi al 7% dei consensi in Umbria, nonostante fossero stati loro a far saltare la giunta precedente e a proporre un candidato scelto fuori dei partiti e con garanzia di farsi la giunta che voleva, ma sempre senza partiti. Una forza ragionevole capirebbe che il grillismo dei vecchi tempi non paga più.
Questo il PD ovviamente l’ha colto, ma non sa che fare, perché non ha a disposizione una alleanza alternativa e di conseguenza sembra scivolare di nuovo nel caos delle guerriglie intestine a cui si aggiungono quelle esterne fomentate dal corsaro Matteo Renzi. Perché il problema di Zingaretti e compagni è tutto qui: tornare alla vocazione maggioritaria, cioè a guidare le danze da soli non è più possibile, sicché qualche sponda bisogna trovarla.
Ragionamento vorrebbe che si puntasse ad aprirsi seriamente a quelle forze vive della società civile che si sono staccate, per vari motivi, dai partiti. Il PD dice di volerlo fare, ma in realtà è bloccato dai giochi interni della sua classe professionale, che non ha nessuna intenzione di mollare posizioni di potere, per quanto vacillanti siano. Così cerca di farlo in maniera raffazzonata e surrettizia, contrabbandando per società civile pezzi di establishment alla ricerca di sistemazione o addirittura partiti più o meno piccoli (inclusi i renziani, come si dice stia facendo Bonaccini in Emilia-Romagna). Ed è facile prevedere che funzionerà poco.
Chi invece si è accorto che è su quel terreno che si giocherà la battaglia finale sembra essere Salvini. Il leader della Lega forse ha capito che la spinta a tutto vapore verso il populismo di estrema destra non solo ha dei limiti di espansione, ma anzi gonfia le vele del suo alleato Meloni, perché FdI su quei temi ha tradizione e sa come trattarli. Eccolo dunque moderare i toni e annunciare l’intenzione di “aprire” la coalizione in maniera inclusiva. La ritrovata sintonia con Berlusconi, ormai una tigre con le unghie tagliate, serve più che altro come rappresentazione di questa svolta verso il centro, che però punta molto oltre.
Come risponderà a questa offerta la cosiddetta società civile, cioè le sue aggregazioni di vario tipo? Non si dimentichi che in passato molte di queste, un tempo appannaggio della DC, si erano progressivamente spostate sul PCI e partiti successori. Lo avevano fatto perché sembrava che questi fossero i cardini del futuro della politica italiana, ma se adesso a occupare quel ruolo sembrasse essere questa nuova destra vagheggiata dal Salvini post successo umbro non sarebbe strano che la transumanza di quel consenso di replicasse.
di Paolo Pombeni
di Michele Marchi
di Stefano Zan *