I leader incredibili
In questa stramba campagna elettorale che non affascina se non quelli che la fanno e che vedono dovunque grandi riscontri, un fenomeno interessante è quello dei leader incredibili. Tali non nel senso di rivelare chissà quali inaspettate capacità politiche, ma nel senso banale del termine: non credibili per il ruolo che pretendono di rivestire.
Partiamo da Giuseppe Conte, capo politico dei Cinque Stelle. Se c’è un personaggio che viene dal mondo dell’establishment prevalentemente romano è proprio lui. Divenne presidente del Consiglio per una geniale trovata dei vertici pentastellati che si resero conto che il loro successo nelle elezioni del 2018 poteva essere consolidato solo dal classico “papa straniero”. La sua fortuna tanto nel suo primo quanto nel suo secondo governo si consolidò offrendosi come sponda ad una quota di alta burocrazia desiderosa di affermarsi: lo si vide con una certa evidenza soprattutto nella gestione della pandemia e nell’avvio del programma che sarebbe poi sfociato nel PNRR (qualcuno si ricorderà di quelle fantasiose proposte e iniziative).
Come non stupirsi di trovare oggi Conte nei panni del “descamisado” che infiamma il Sud proponendosi come il gran difensore dell’assistenzialismo, tanto quello che distribuisce un equivoco reddito di cittadinanza che non incrementa l’inserimento nel mondo del lavoro, quanto quello che col superbonus all’edilizia fa fiorire un po’ di ripresa destinata però a smontarsi (ad un certo punto finiranno le facciate e simili da ristrutturare e a quel punto tutta la massa di imprese fiorite per i bonus che fine faranno? Soprattutto i loro operai …). Del resto anche ammesso che l’ormai suo M5S raggiungesse a livello nazionale punte del 15% come si favoleggia che ne farebbe poi? Certo in passato è stato abilissimo nel costringere i suoi occasionali alleati, tanto di destra quanto di sinistra, a piegarsi ai suoi diktat, ma potrà essere ancora così?
L’altro leader incredibile è Enrico Letta: un moderato, fino a poco tempo fa fiero del suo profilo tecnico e quasi professorale, trasformatosi anche lui in un modesto demagogo di sinistra. Il cosiddetto campo largo non è mai stato strutturato per fare del PD una calamita che attraeva consensi tanto dal centro quanto dalla sinistra in nome del convergere delle due ali sulle proprie posizioni. Al contrario esso si presentava come la pretesa di una capacità, dobbiamo dire funambolica, del partito nato dalla fusione fredda fra postcomunisti e postdemocristiani di accontentare insieme la domanda di conservazione del sistema dei ceti dirigenti tradizionali e quella di fuga nel radicalismo più o meno di maniera di una élite intellettualoide. Due “correnti” ben rappresentate dentro il PD che tendono a farsi sostenere nella lotta fra loro da forze esterne.
Quel campo largo si è ristretto nelle mani di Letta non perché si sia convinto della necessità di cambiare modello, ma perché è finito schiacciato dalle componenti meno credibili delle due ali. Così da un lato ha ceduto nel fare le liste al professionismo politico che è espressione del tradizionale insediamento di sistema che risale alle vecchie forze all’origine della fusione, dall’altro ha dato spazio a tutti i radicalismi in campo, da quelli sui cosiddetti “diritti” (in gran parte più espressioni intellettuali alla moda che risposte a reali emergenze – con l’eccezione del problema dello ius scholae), a quelli cosiddetti ambientalisti, a quelli del sinistrismo para-sindacale (per la maggior parte neppure più “operaio” nel senso classico).
Resterebbe da spendere qualche riga su Silvio Berlusconi, che si è ridotto ad una macchietta. Ha oscillato fra una fantasmagorica proposta di un duo fra lui e la Merkel per mediare con Putin sull’Ucraina (dubitiamo che l’ex cancelliera tedesca abbia inclinazioni per operazioni di quel tipo) e la solita proposta di regalare mille qualcosa a destra e a manca (fossero alberi da piantare, pensioni da incrementare, stipendi per i giovani da attivare). Promette naturalmente “quando noi saremo al governo” di risolvere questo e quell’altro problema, come se ad avere le chiavi della coalizione che si profila come vincitrice delle elezioni fosse ancora lui, mentre tutto mostra che siamo ben lontani da quella posizione.
Non si può buttarla solo sul ridere, perché in verità la presenza di una forza moderata nel centro destra, ovviamente con un peso in grado di farsi sentire, sarebbe utile al paese, ma si capisce fin troppo facilmente che non sarà così. Forza Italia è una presenza residuale, ormai sconnessa da ambienti significativi dei ceti dirigenti, e Berlusconi non è in grado di richiamarla in vita, come anche in questo caso si vede benissimo scorrendo le liste dei suoi candidati.
Quando ci si sofferma su questi casi (e si potrebbe continuare considerando per esempio le fortune di Masaniello-Salvini) si capisce facilmente il perché di due opposti fenomeni. Da un lato il successo di Giorgia Meloni, non tanto per una sua sopravvalutata “coerenza” quanto per la sua capacità di proporsi come catalizzatore di un nuovo blocco sociale che salda volontà di conservazione di fronte ad un futuro incerto e aspettativa per una qualche forma di “circolazione delle élite” (che effettivamente non è stata sin qui molto attiva). Dal lato opposto la fuga dalla partecipazione elettorale da parte di una quota considerevole di cittadini indispettiti e in alcuni casi stomacati da una politica così palesemente incredibile.
di Paolo Pombeni
di Fulvio Cammarano *