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Giochi di Palazzo?

Paolo Pombeni - 14.03.2018
Luigi di Maio

L’autoproclamatosi premier in pectore (altrimenti non ci sarebbe democrazia!) Luigi Di Maio liquida come giochi di Palazzo l’agitarsi convulso della politica a fronte di una situazione che non tanto ha visto uno stallo per mancanza di vincitori assoluti, ma che sconta una campagna elettorale giocata su promesse irrealizzabili che adesso vincolano i due partiti che potrebbero essere a un passo da Palazzo Chigi. Invece è solo la realtà politica che presenta il suo conto: la democrazia parlamentare non è una lotteria dove uno può estrarre il biglietto vincente con un colpo di fortuna.

Del resto, se di giochi di Palazzo si deve discorrere, già la questione di designare i vertici delle due Camere lo sono e i Cinque Stelle ci stanno partecipando alla grande. La delicatezza delle due posizioni sembra sfuggire e del resto era già accaduto nella legislatura appena conclusa, con la trovata di metterci Grasso e Boldrini, che non si sono rivelati esattamente due figure capaci di ricoprire il ruolo di mallevadori e garanti di una cultura politica nazionale capace di ricucire le lacerazioni di un paese in crisi. Così, una volta di più, le due presidenze vengono viste più come fortini da conquistare per piantarci la propria bandierina che come delicatissimi snodi del meccanismo di rappresentanza nazionale: se non fosse così non avrebbe senso etichettarli come seconda e terza carica dello stato.

Con questo non si vuole minimizzare il delicato tema dello sbocco da dare alla crisi con la formazione di un governo capace di gestire non solo la delicata fase di transizione che inevitabilmente ci porterà, non si sa in che tempi, a verificare se il terremoto elettorale del 4 marzo sia stato un episodio o il principio di un nuovo sistema (e quale), ma anche ad affrontare i compiti ardui che spettano all’Italia nella contingenza attuale. Questi, tanto per mettere le cose in chiaro, sono principalmente due: 1) come consolidare e possibilmente ampliare la ripresa economica che si è avviata nell’ultimo anno; 2) come gestire la nostra presenza in una Unione Europea che intraprenderà un percorso di ridefinizione degli equilibri interni con turbolenze piuttosto forti.

Sono questi due macigni che sbarrano la strada allo spensierato proposito di mettere mano a riforme che eccitano le fantasie di una opinione pubblica che non vuole rassegnarsi alla dura realtà di un mondo che non è più quello di ieri: andiamo dall’abolizione della legge Fornero al reddito di cittadinanza, dall’espulsione in massa dei migranti irregolari alla flat tax, e via elencando.

I due mezzi vincitori, M5S e Lega, sono alle prese col problema di come poter recedere dalle intemerate elettorali senza perdere la faccia, mantenendo però la posizione di vantaggio indubbiamente acquisita nelle urne. E’ un rebus quasi insolubile, a meno di non buttarla ancora una volta in caciara, come si usa dire con questo termine romanesco: accusare di tradimento della democrazia, del popolo, e compagnia bella chi, non sostenendo il loro esecutivo, non consentirà loro di fare subito le famose “prime due o tre riforme” che si sono impegnati a fare una volta seduti sugli scranni del governo.

Il sottinteso è che tutto sommato non sono veramente dispiaciuti della contingenza che li tiene fuori dal governo, perché li legittima a continuare a proclamare, senza poter venire smentiti, che con loro al potere si sarebbero viste cose meravigliose, il che verrà assai utile al momento delle future elezioni. Inoltre così si lascia in angolo il PD e lo si fa consumare nelle sue diatribe interne. Infatti quel partito è in una pessima posizione: non può ovviamente sostenere un governo a trazione Cinque Stelle o Lega perché ciò lo renderebbe corresponsabile di un più che probabile pasticcio; non sa che fare all’opposizione, perché si troverebbe a gestire la scomoda posizione di quello che dice di no alle follie altrui, caricandosi l’accusa di essere quello che ha impedito il miracolo del rinnovamento politico.

E’ in questo clima che sta crescendo quell’ipotesi del governo di tregua, che, ci sia concesso un po’ di orgoglio, avevamo prospettato da tempo nelle nostre analisi. Verso di esso premono, senza troppo esporsi, vari canali che danno voce alle preoccupazioni delle classi dirigenti e basta una intelligente lettura dei media per rendersene conto. Il problema non secondario è che c’è il rischio che questa soluzione finisca per essere una via italiana alla palude politica: un governo che non potrebbe far nulla perché basterebbe il ritiro del sostegno di una delle forze politiche per fargli perdere legittimazione; una soluzione che dovrebbe servire per consentire alla giungla di interessi corporativi (e ce ne sono davvero tanti) di continuare a coltivare i propri canali di condizionamento sull’azione pubblica.

Insomma il governo di tregua per avere un senso dovrebbe essere un governo fortemente dinamico e capace di esercitare una azione di indirizzo sul paese, ma questo è esattamente il contrario di quel che vogliono i partiti: una soluzione del genere li delegittimerebbe ulteriormente davanti all’opinione pubblica. Eppure ciò che si deve evitare adesso è proprio che la soluzione del governo di tregua, unica soluzione ragionevole, almeno al momento, per uscire dallo stallo, diventi una furbesca variante dei giochi di Palazzo.