Eppur si muove! Il sistema culturale italiano ai tempi della crisi
Lustri di immobilismo
Da almeno vent’anni la politica culturale italiana si muove entro un singolare paradosso, quello di un Paese che si bea di detenere una fetta significativa del patrimonio culturale mondiale, ma che nel proprio sviluppo culturale investe molto meno della media degli stati europei. Così l’irragionevole mantra che percorre a tutti i livelli il discorso pubblico italiano sulla cultura, quello per cui il nostro Paese ospiterebbe il 70% (altri, più modestamente, parlano del 50%) del patrimonio culturale mondiale, risulta fastidioso non tanto e non solo per la sua completa infondatezza, quanto perché se così fosse, l’immobilismo della politica italiana nei riguardi della sfera culturale risulterebbe ancor più scellerato.
Che nella vita politica italiana l’interesse per la cultura abbia progressivamente perso di centralità lo descrive molte bene (pur con qualche eccezione) il profilo dei ministri chiamati negli ultimi anni a guidare il Ministero per i Beni e le Attività Culturali: politici con improbabili velleità letterarie, uomini di cultura senza troppa esperienza nel settore, uomini di partito a cui garantire una rendita politico-salottiera. Così a ogni cambio di governo il valzer delle dichiarazioni dei neoministri appare immutato, con l’enfatica insistenza sull’importanza del patrimonio culturale nazionale per la tenuta del cosiddetto “sistema Italia” e sulla necessità di salvaguardarlo per garantire lo sviluppo del turismo. Tutte, o quasi, riflessioni che confermano sostanzialmente due elementi: una concezione funzionale e ancillare della cultura, intesa anzitutto come volano strategico del turismo, e l’appiattimento dell’intero panorama culturale entro la dimensione, centrale quanto parziale, della “salvaguardia” e della “tutela”, dunque di una visione di carattere conservativo.
Il sistema culturale italiano in cifre
I numeri parlano chiaro e non fanno che confermare la scarsa attenzione riservata dal sistema politico al panorama culturale nazionale. In una dozzina di anni il bilancio del MiBACT è stato pressoché dimezzato (dai 2,7 miliardi di euro del 2001 a 1,5 miliardi di euro del 2013, pari allo 0,2% del bilancio dello Stato, cifra significativamente al di sotto della media europea). Invece che essere considerato uno spazio strategico di investimenti per produrre ricchezza, la cultura è stata usata come per recuperare le risorse necessarie ad affrontare la stretta della crisi. Eppure il comparto culturale costituisce un settore economicamente più che rilevante. Dal rapporto 2013 Io sono cultura presentato da Unioncamere e Fondazione Symbola si evince come la cultura frutti al Paese il 5,4% della ricchezza prodotta, equivalente a quasi 75,5 miliardi di euro, e come dia lavoro a quasi un milione e quattrocentomila persone, ovvero al 5,7% del totale degli occupati del Paese. Se poi consideriamo che per ogni euro di valore aggiunto prodotto dalle attività in ambito culturale se ne attivano, mediamente, altri 1,7 sul resto dell’economia, ci troviamo di fronte a un sistema produttivo, quello culturale, capace di “attivare” 133 miliardi di euro. Intesa in senso lato, la filiera culturale italiana vale dunque poco più di 210 miliardi di euro l’anno; una cifra significativa, che la politica dovrebbe iniziare a considerare con maggior rispetto.
Un (timido) nuovo inizio?
Al di là delle ritualità dei discorsi di insediamento, spesso carichi di assunti programmatici dal respiro corto, sembra averlo capito il ministro Franceschini, che fin dalle prime uscite pubbliche ha sottolineato non solo l’imbarazzo per il grado di trascuratezza con cui la politica ha guardato in questi anni alla cultura, ma la sua intenzione di considerare il MiBACT un ministero economico a tutti gli effetti. Parole, si dirà, non troppo distanti da quelle di suoi molti predecessori; eppure qualcosa pare muoversi. Certo, è prematura qualsiasi articolata forma di valutazione, ma le misure varate nelle ultime settimane dal governo lasciano sperare che un cambio di passo (anzitutto culturale) sia possibile anche nella politica italiana.
Nel decreto cultura varato a fine maggio e nelle disposizioni seguite nelle settimane successive hanno infatti trovato posto misure interessanti, come la spinta all’occupazione giovanile nel settore museale in deroga ai limiti imposti alle amministrazioni diverse dai beni culturali, l’introduzione di un credito d’imposta del 65 per cento per le donazioni a favore di interventi di manutenzione e restauro di beni culturali pubblici (il cosiddetto “Art bonus”), un significativo innalzamento del tax credit per il cinema capace di stimolare significativamente il coinvolgimento di produzioni internazionali, la sua estensione (per la prima volta) alle produzioni televisive e al settore del web, e ancora la trasformazione dell'Enit in ente pubblico economico, la liquidazione di Promuovi Italia, gli stanziamenti per le attivita' culturali nelle periferie, un incremento di 50 milioni di euro per il fondo di dotazione delle fondazioni lirico-sinfoniche e l’istituzione di un fondo straordinario per il jazz.
A giudicare dalle reazioni seguite alle misure promosse dal governo, i primi a essere stupiti sono stati gli operatori del settore (produttori, cineasti, musicisti, esercenti), abituati a doversi confrontare con disposizioni penalizzanti sul piano (non solo) economico. “Le cose stanno cambiando”, ha dichiarato nei giorni scorsi Paolo Fresu riferendosi all’attenzione della politica nei riguardi del mondo culturale. Toccherà attendere qualche tempo per verificare se le cose stanno davvero così; l’augurio, naturalmente, è che per una volta i velleitarismi programmatici comuni a ogni governo trovino forme concrete di realizzazione. E che per il sistema culturale italiano si faccia strada un modello più dinamico, realmente capace di creare e promuovere cultura, non solo di conservarla.
di Paolo Pombeni
di Giulia Guazzaloca