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24 aprile 2024
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Elettori, partiti e leader: un rapporto senza impegno

Luca Tentoni - 07.07.2018
Marino De Luca Partiti di carta

La campagna elettorale permanente che mobilita leader, elettori e soggetti politici da almeno quindici anni (della quale abbiamo parlato nello scorso appuntamento con Mentepolitica) ha finito per ripercuotersi sulla natura, la struttura, la forma stessa dei partiti italiani. Questi ultimi, peraltro, erano già interessati da mutazioni comuni a tutte le democrazie, ma che da noi si erano accentuate col passaggio dal sistema dei partiti che aveva caratterizzato la Prima repubblica a quello - più "liquido" da una parte e più leaderistico dall'altra - della Seconda. Più in generale, come scrive Marino De Luca in "Partiti di carta" (Carocci, 2018) "la logica degli effetti e delle influenze ha rapidamente trasformato i partiti politici in contenitori di issues a tempo determinato, destinati a vivere pochi anni prima di destrutturarsi e ristrutturarsi intorno a nuove issues. Il ruolo che hanno assunto nella sfera pubblica risulta veicolato da fattori che prescindono dalla stessa sfera organizzativa". De Luca, nel suo saggio, osserva i mutamenti dei partiti e la vita effimera di quelli nuovi: se fra le liste presenti alla Camera, nel 1992, il 36% era costituito da "vecchi partiti", nel 1994 siamo passati al 12%, nel 2008 di nuovo al 33% e nel 2018 al 21%. Molti di quelli nuovi sono partiti che De Luca definisce "sulla carta, a volte creati ad hoc e altre volte destinati a scomparire subito dopo il ciclo elettorale o a diventare altro: fusioni, unioni, scissioni, eccetera. Sono partiti moderni, certamente importanti e funzionali, ma sempre più realtà inconsistenti costruite intorno alla fluidità contemporanea". Eppure, si potrebbe obiettare, il partito che oggi ha la maggior capacità di cattura del consenso è la Lega, presente in Parlamento dal 1987 (è il più vecchio dei soggetti politici della Seconda Repubblica, essendo nato nell'ultimo decennio della Prima); un partito/movimento che ha quadri, struttura territoriale, amministratori locali in comuni e regioni. In pratica è il più somigliante a quelli di un tempo. Ha però un leader - come Bossi nel primo quarto di secolo leghista - che detta la linea, quindi ha dei tratti molto moderni (è il "partito del capo"). Ma, soprattutto, pur non avendo i caratteri organizzativi effimeri di tanti "partiti di carta", è tuttavia orientato verso la ricerca e la valorizzazione delle issues sulle quali l'elettorato è più facilmente mobilitabile. Un tempo al primo posto c'era il federalismo - talvolta declinato in modo da avvicinarsi parecchio al secessionismo - con la rivendicazione identitaria del Nord e delle sue istanze. Oggi la Lega è "nazionale" (il Nord è sparito anche dal simbolo; al verde "padano", inoltre, si è affiancato - quasi a sostituirlo - il blu) e punta tutto su due parole d'ordine non sconosciute al mondo leghista, ma adattate ad una platea più vasta: "prima gli italiani" (non più i settentrionali) e lotta all'immigrazione (quella degli extracomunitari, non più dei meridionali). La lotta a "Roma ladrona" è stata sostituita dallo scontro con Bruxelles e con l'Europa. Questo riposizionamento, voluto da Salvini al suo arrivo al vertice leghista, è frutto della constatazione che la vecchia (e in parte indebolita dagli scandali) classe dirigente del partito, ma soprattutto le parole d'ordine tradizionali, nel 2013 avevano fruttato solo un modesto 4% dei voti. Anziché avviarsi al declino, come altri partiti fondati sul leader (l'Idv di Di Pietro fra tutti), Salvini ha compreso che la fine dell'esperienza politica di Bossi doveva essere compensata dall'arrivo di un nuovo "guerriero del popolo". Una versione più moderna e - se vogliamo - più europea: il senatùr, infatti, non cercava alleanze internazionali, non amava la Le Pen o i leader come Orban. Con Berlusconi, Bossi sapeva essere volpe e leone (come diceva Machiavelli), un po' accontentandosi e un po' conquistando quote progressive di potere, mentre Salvini ha compreso che la parabola ascendente della sua Lega si può incrociare con quella declinante della destra moderata di Forza Italia e assorbirne i consensi, facendo esattamente ciò che il Cavaliere aveva compiuto nel 1994 ai danni dei leghisti (quando cannibalizzò un Carroccio che i sondaggi, nel '93, davano al 20% e che si fermò all'8%, nel '94). Per compiere la sua (per ora irresistibile) ascesa, Salvini ha preso un partito ridotto alla marginalità e lo ha portato ad utilizzare meglio di tanti "partiti di carta" le tecniche più sofisticate e nuove di sfondamento. Come spiega De Luca (il cui saggio è degno di nota anche per la sua essenzialità, il rigore scientifico e per la capacità di non entrare nelle piccole questioni italiane, se non in rarissimi casi, senza peraltro far riferimento a singoli partiti) in una tabella di raffronto fra il partito di élite, il partito di massa e il partito elettorale ("pigliatutto"/i e/o "cartel party") i nuovi soggetti politici utilizzano canali di comunicazione mediali e virtuali, competono su tutto il mercato elettorale (non solo su quello di appartenenza o di classe), formano e manipolano (in senso tecnico: non è un giudizio di valore) le preferenze degli elettori. I nuovi partiti prediligono le campagne permanenti, il contatto disintermediato con l'elettore (social network), ricorrono ai sondaggi, al marketing elettorale (sia per selezionare i temi preferiti che per far crescere il consenso intorno ai propri, imponendo l'agenda anche agli altri partiti, costretti a rincorrere). In generale, ricorda De Luca, "i partiti politici hanno guadagnato in leadership ciò che hanno perduto in ideologia". Il leader è l'ideologia. Per questo, nei partiti personali o personalizzati, "la proiezione monocratica spinge verso implosioni interne dovute a problematiche esterne che direttamente o indirettamente colpiscono il loro leader". Se vogliamo, è quanto è accaduto nel passato prossimo e remoto a molti capi politici della Seconda Repubblica: tanto più hanno accentrato il potere nel partito e lo hanno spinto ad identificarsi con la propria persona, tanto più questo - ad un certo punto - è crollato con loro, trasformando una sconfitta elettorale in una tabula rasa del proprio soggetto politico. Per questo, Salvini deve andare sempre all'attacco, trovare nuovi temi, nuove sfide mobilitanti. Non può fermarsi. Gli altri partiti debbono fare altrettanto. Quelli non leaderistici (o meno leaderistici, come il M5s) che puntano su alcune issues da valorizzare in fretta nell'azione di governo (i voti sono sempre più in movimento, del resto: nulla è acquisito strutturalmente, come durante la Prima Repubblica, perché non ci sono collanti ideologici e di classe, né corpi intermedi, né strutture locali di partito) mentre quelli in mezzo al guado (FI e PD, uno con un leader in crisi di popolarità e l'altro senza leader, entrambi "in cerca d'autore") avvertono che la stagione degli spin doctor, del marketing elettorale e del dominio dell'agenda setting è ormai - per loro - legata a glorie passate (peraltro, mentre FI non ha mai avuto una vera e propria struttura tradizionale, ma un insediamento forte in alcune zone come per esempio la Sicilia, il Pd li aveva entrambi ma li ha persi, consumandoli prima progressivamente e poi più rapidamente, nell'ultimo quinquennio). L'arma vincente della leaderizzazione dei partiti e della politica, tipica della Seconda Repubblica e degli anni più recenti, si è rivelata insieme lo strumento più potente per catturare uno smisurato consenso, ma anche per annichilire forze politiche nel giro di poco tempo, a fronte di un panorama che, soprattutto fra il 1958 e il 1987, era rimasto (con rarissime eccezioni, sia pur significative) pressoché stabile. In questo panorama, la ricerca di un coinvolgimento dei cittadini non ha è riuscita a passare per le tradizionali vie del tesseramento e della militanza di massa, tipiche dell'era delle ideologie. Si è così preferita un'appartenenza "leggera" e per certi versi intermittente. Così la figura del simpatizzante si è trasformata nell'elettore delle "primarie", mobilitato per l'occasione, senza impegno. Forse la caratteristica del nostro tempo (l'espressione del voto nelle elezioni di diverso ordine, la partecipazione ad eventi politici, la discussione on-line, il sostegno di breve-medio termine al leader) sono tutte espressioni di una politica "senza impegno", che vede un elettorato estremamente volatile scegliere partiti talvolta effimeri e temi che diventano prioritari (per la difficoltà o l'impossibilità o lo scarso tempo a disposizione per affrontare i problemi strutturali del Paese) ma cambiano come i "trending topics" di un social network. Questa "fiducia artificiale" riposta nella politica del leader diventa, come afferma De Luca, "la prerogativa di un prodotto sostanzialmente volatile e soggetto al fattore tempo, che fa dei rappresentanti i politici di una sola stagione e che spinge l'elettorato verso una struttura fluida e mobile di un mercato indefinito e mutevole". Così, ormai, "parafrasando Jacques Séguela, bisogna riuscire a raccontare una bella storia, fatta di dettagli e di richiami positivi, di emozioni e soprattutto di una visione di speranza e di futuro" (questo vale, a nostro avviso, anche quando si evocano paure e si suggeriscono ricette salvifiche e mondi migliori raggiungibili una volta eliminato il "nemico") "tutto ciò a patto che sia il proprio leader a ricoprire in pieno il ruolo dell'eroe. La narrazione diventa un elemento centrale della politica contemporanea in un racconto pop da interpretare, veicolare e condividere".