Draghi e la querelle sul Quirinale
La conferenza stampa del premier Draghi è stata in genere accolta male da molti esponenti della grande stampa. Si è ritenuto intollerabile che rifiutasse domande sul suo futuro (al Quirinale o a palazzo Chigi), ci si è lamentati che avesse perso decisionismo (dopo naturalmente essersi lamentati nei mesi scorsi del suo piglio decisionista).
In realtà le cose sono più complicate, ma ormai il teatrino della politica commentata non tollera che qualcuno rifiuti di rivestire i panni che gli sono stati assegnati nella rappresentazione. A Draghi troppi non perdonano di non avere fatto il miracolo, cioè avere cancellato la pandemia. Altri si beano nel rilevare che loro l’avevano sempre detto che non ce l’avrebbe fatta. Ovviamente sono due atteggiamenti ridicoli, perché nessuno in nessuna parte del mondo è stato in grado di cancellare questa pandemia, ma Draghi non solo ha fatto molto per metterla il più possibile sotto controllo, ma ha al tempo stesso evitato che essa producesse la catastrofe economica che era profetizzata da vari osservatori.
Tutto però si è ulteriormente complicato quando si è aperta la questione di una possibile investitura dell’attuale premier come prossimo presidente della repubblica. La prospettiva suscita preoccupazione nelle forze politiche per due ragioni. La prima è che non sanno come possono risolvere il problema della continuazione nell’azione impostata dall’attuale governo: di continuare con la larga maggioranza non hanno molta voglia perché temono che chi sostituirà Draghi si intesti i successi del PNRR e simili mentre gli altri si vedranno addossare le rimostranze da parte di tutti quelli che non avranno vantaggi o perderanno posizioni di rendita. La seconda è che un presidente della repubblica con una caratura di peso ottenuta fuori e oltre il sistema dei partiti mette ulteriormente in crisi la presa di questi sul sistema politico.
Per questo c’è una pressione a che Draghi “si candidi” per l’ascesa al Colle o per la permanenza alla guida del governo. Se lo fa, offre lo spazio a quei partiti che sono disponibili a sostenerlo per l’una o per l’altra posizione di negoziare con lui delle condizioni. Nessuno rileva che questo sconvolgerebbe l’equilibrio del nostro sistema politico.
Né la carica di presidente della repubblica, né quella di presidente del consiglio sono nel nostro sistema ad elezione popolare diretta: solo in quel caso avrebbe senso candidarsi, cioè proporre quali “poteri” specifici si chiede di ricevere dall’investitura popolare. Al contrario il Capo dello Stato riceve l’investitura da un corpo elettorale di secondo grado (Camere e rappresentanti regionali) per rivestire un ruolo e dei compiti i cui contenuti sono già identificati dalla Carta costituzionale. Li declinerà ovviamente con la sua personale sensibilità, tenuto conto delle circostanze che si presenteranno nel corso del suo mandato, ma non potrà costruire un modo di intendere la presidenza della repubblica di tipo nuovo. Per queste ragioni non ci sono discorsi o manifesti di candidatura, non ci sono confronti dialettici pubblici fra più candidati, come accade normalmente nei sistemi dove il vertice dello stato è scelto dalla volontà popolare.
Meno facile cogliere che lo stesso vale in buona misura anche per il ruolo del presidente del consiglio. Sebbene da anni si sia forzata la prassi di una indicazione del candidato premier più o meno sulle schede elettorali (Berlusconi vs. Prodi fu l’esempio più chiaro), in realtà siamo rimasti un sistema parlamentare in cui il presunto eletto dalla volontà popolare può essere fatto cadere in parlamento senza che questo comporti un ritorno davanti agli elettori. I partiti sono rimasti arbitri nel formare maggioranze parlamentari e anche nell’individuare chi inviare a loro nome a guidare il governo.
Ricordiamo queste banali realtà per spiegare come Draghi abbia fatto benissimo a sottrarsi alla trappola di candidarsi a questa o a quella carica. A farlo non deve essere lui, ma le forze politiche che designandolo si impegnano ad investirlo realmente dei poteri previsti da quei ruoli. Ed è proprio questo che i partiti non vogliono fare, perché lui è un “estraneo” al loro circuito che per di più non è disponibile a “chiedere i loro voti”.
L’ultima trappola a cui il premier si è sottratto è quella della conferenza stampa di lunedì 10 gennaio. Ammaestrato da come era stata accolta la sua affermazione in quella del 22 dicembre scorso di considerarsi un “nonno” al servizio delle istituzioni, ha voluto cambiare spartito. Allora si era presa la sua performance come un atto per insinuare la sua candidatura al Colle con la sua attitudine “dirigista” e non come la disponibilità ad essere collocato con le sue competenze dove poteva convenire al Paese. Ora ha scelto un profilo che sottolineasse il suo rifiuto di sentirsi rappresentato come “Super Mario” ed ha respinto qualsiasi possibilità di esprimersi sul suo futuro nelle istituzioni, sottolineando così che spetta alle forze politiche decidere se vogliono o meno servirsi delle sue capacità e in che forma.
Dovrebbe essere visto come un gesto molto nobile e maturo da parte di un uomo pubblico e invece lo si è voluto ridurre alle dimensioni di un teatrino politico dove non ci si trova gusto se non si specula su ambizioni, intrighi, occupazioni del potere. Ma questo è un altro segno della decadenza di una parte non piccola del nostro sistema politico, decadenza che coinvolge non solo i partiti, ma anche il mondo dei media. Non tutti, ovviamente, ma certamente troppi.
di Paolo Pombeni
di Francesco Domenico Capizzi *