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Dopo le sparate elettorali

Paolo Pombeni - 28.02.2018
Ministro Minniti

Si sa che specie negli ultimi giorni prima del voto tutti i partiti si arroccano sulle loro posizioni identitarie, timorosi di offrire il fianco alle incursioni degli avversari. Non mancano i giochi spregiudicati (per non dire sporchi) tipo il parlar bene di Minniti da parte di esponenti del centrodestra per sostenere dall’esterno la tesi che il PD non è più di sinistra, o lasciar intendere che la Bonino può diventare un elemento ponte col centrodestra, in modo da renderla sospetta agli elettori di centrosinistra e suscitare zizzania con Renzi, che già si preoccupa per l’ipotesi che quella lista superi il 3% non contribuendo così ad aumentare i seggi del PD.

Ci limitiamo a questi due esempi, anche se tutti stanno facendo cose simili. Naturalmente la contromossa contro le sparate iperboliche è la strategia del realismo ostentato, che è quanto sta facendo Gentiloni. E’ la vecchia tecnica con cui De Gasperi e Adenauer nel primo dopoguerra riuscirono a raccogliere un consenso maggioritario, ma allora si veniva dall’indigestione delle trombonate di fascismo e nazismo e tutti avevano toccato con mano dove si era andati a finire.

Non sappiamo se questa volta la strategia funzionerà, soprattutto perché l’astensionismo sottrae elettorato alle componenti più riflessive: è infatti tutto da dimostrare che si astenga dal voto chi non trova l’offerta politica in campo veramente di destra o veramente di sinistra. Con la ricchezza di offerta gli estremisti dell’una e dell’altra parte non hanno difficoltà a trovare casa.

Ciò che preoccupa a pochi giorni ormai dall’apertura delle urne è il vicolo cieco in cui si stanno cacciando tutti. Se davvero, come è molto probabile, non ci saranno maggioranze di governo essersi bruciati tutti i ponti alle spalle non si rivelerà una strategia vincente. Il problema infatti, coi tempi difficili che avremo davanti, non sarà quello di riuscire alla fine a mettere insieme in qualche modo un governo. A quello si arriverà inevitabilmente, perché la prospettiva di tornare subito al voto è una favoletta per i gonzi a cui nessun politico crede davvero. Già infatti si comincia a dire che alle urne si tornerà non appena varata una nuova legge elettorale, il che significa tempi abbastanza lunghi, ammesso che sul tema si possa trovare la famosa quadra.

Come hanno messo in luce tutti i commentatori che conoscono la materia non si riuscirà ad andare al voto prima di un anno, per la semplice ragione che vanno attesi i tempi tecnici per avviare la nuova legislatura (non si può sciogliere un parlamento che non abbia preso forma compiuta) e questo ci porterebbe a votare in estate, cosa che è normalmente pericolosa, con il distacco di opinione pubblica che ci sarà dopo un esito fallimentare delle urne lo sarebbe ancora di più. In autunno si entra nella sessione di bilancio e solo dei totali irresponsabili potrebbero portarci all’esercizio provvisorio per togliersi il gusto di andare a votare, sicché si arriva a fine anno. Segue l’inverno che sconsiglia il voto (e già questa volta si sta vedendo cosa può succedere con nevicate abbondanti) e dunque si va al meglio a marzo inoltrato 2019.

C’è poi la questione, assai spinosa, di come si possa riformare una legge elettorale ad opera di un parlamento frammentato prodotto da quella attuale. Per arrivare al famoso risultato di sapere la sera delle elezioni chi ha davvero vinto, non c’è altra soluzione che immaginare un sistema che manipoli il voto, distribuendo, in una forma o nell’altra, un premio di maggioranza. Davvero qualcuno pensa che dopo l’esito del 4 marzo in una situazione di grande incertezza e con un alto numero di partiti si troverebbe la maggioranza per introdurre un meccanismo che diventerebbe di necessità un gioco d’azzardo in cui è difficile immaginare a chi andrà il premio?

La fantasia dei politici e dei loro tecnici di corte è grande, lo si è visto col Rosatellum, ma è anche vero che questa volta dovrebbero aver toccato con mano quanto ingannevoli possano risultare alla fine i calcoli fatti a tavolino. E’ dunque presumibile che difficilmente si tornerà indietro da una impostazione proporzionale, forse anche più spinta di quella attuale, il che vorrebbe dire replicare il rischio di ingovernabilità. E saremmo, come suol dirsi, punto ed a capo.

C’è naturalmente il problema, niente affatto secondario, di mettere in piedi un esecutivo che governi quest’anno di transizione. Sotto traccia si fa capire che se non tutte la maggior parte delle forze politiche si orienta per un governo frutto e ostaggio di una maggioranza amplissima, senza colore politico: una specie di governo amministrativo, quello che, come si è lasciato sfuggire Junker, non riuscirebbe poi ad essere operativo. Così tutti potrebbero affermare che non si sono fatti gli “inciuci” contro cui si erano scagliati durante la campagna elettorale, ma al prezzo di un esecutivo che camminerebbe sempre sui carboni ardenti del rischio di bocciatura parlamentare per ogni norma che cercasse davvero di prendere qualche toro per le corna.

Non riusciamo a dire che sarebbe comunque una accettabile prospettiva (chiunque si immagini come il Cireneo destinato a portare la croce di presiedere un simile esecutivo), così come non riusciamo a dire che sarebbe meglio che dalle urne uscisse una maggioranza, perché quelle possibili non ci paiono né allettanti, né capaci di garantire quel livello di responsabilità e di affidabilità di cui c’è assoluto bisogno in un momento ancora piuttosto difficile.