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Diplomazia: un ministro “politico” per una nuova ripartenza

Michele Marchi - 22.11.2014
Paolo Gentiloni

L’arrivo del quinto ministro in tre anni esatti alla guida della Farnesina è l’occasione per tornare a riflettere sulla politica estera italiana. Ripartendo da un precedente contributo (http://www.mentepolitica.it/articolo/per-una-a-oeterzaa-repubblica-anche-alla-farnesina/140), non si può dimenticare che la proiezione di politica estera del nostro Paese ha subito una profonda evoluzione nel corso dell’ultimo ventennio, essenzialmente per due ragioni. Da un lato ha, infatti, subito gli effetti sistemici del tornante 1989-1992, per intenderci quello che dal crollo del Muro di Berlino conduce al Trattato di Maastricht, passando per la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dall’altro tali fattori esogeni hanno pesantemente condizionato il quadro politico interno. I vari tentativi (spesso fallimentari, ma comunque reali) di andare nella direzione di una democrazia dell’alternanza ad assetto bipolare e con un rafforzamento del ruolo e della legittimità del Presidente del Consiglio hanno avuto riflessi non trascurabili anche sulle scelte e le modalità di implementazione delle linee di politica estera.

Nel post ’89 l’Italia è stata per certi versi “forzata” alla politica estera, dopo oltre un quarantennio nel corso del quale aveva condotto la sua lenta e costante riabilitazione dopo i disastri della politica estera fascista e aveva cercato di ricostruirsi un’immagine di “media potenza” regionale, collocandosi nel gruppo fondatore del processo d’integrazione europea e sfruttando al massimo l’ombrello protettivo della Nato. Per molti versi il tornante 1989-1992 ha visto “scadere” la rendita di posizione geopolitica del nostro Paese e da quel momento non è stato più sufficiente soltanto seguire, in particolare l’alleato americano, o solo rincorrere, i principali partner europei.

Con difficoltà, ma senza grandi alternative, l’Italia ha dovuto cercare un riadattamento dei due pilastri della sua politica estera, l’europeismo e l’atlantismo. E questo anche perché con i “crolli” del 1989-91 e la “costruzione” del 1992, quei due termini hanno cominciato ad assumere un significato profondamente differente, per non arrivare a dire che hanno perso gran parte del loro senso o dovrebbero perlomeno essere sostituiti da concetti che meglio descrivono i tempi recenti.

Inutile girare troppo attorno alla questione. Sul fronte dell’europeismo, Maastricht doveva essere una cesura, per certi versi il completamento di Roma (1957) e dunque dell’Europa economica, ma anche un nuovo inizio, cioè il punto di partenza dell’Europa politica (estera e di difesa, naturalmente). La prima parte del lavoro è andata in porto e l’area euro ne è l’esempio, seppur con le sue deficienze e i suoi rischi di implosione.  La seconda è clamorosamente naufragata. Le ricadute sulla proiezione di politica estera italiana sono altrettanto evidenti. La “dimensione europea” è oramai prerogativa del capo del governo e del suo ministro dell’economia. Il titolare della Farnesina cerca faticosamente di coordinarsi con gli omologhi europei e il “ministro degli esteri europeo”, almeno sino ad oggi, da Bruxelles si limita a coordinare una politica estera e di sicurezza comune tanto indispensabile quanto al momento irrilevante.

Sul fronte dell’atlantismo è evidente che la “vittoria” del campo occidentale ha comportato un effettivo depotenziamento o addirittura perdita di significato del termine. Paradossalmente però lo scongelamento del “freddo mondo” pre ’89-’91, ha innescato una serie di crisi regionali (dal Kuwait al Kosovo passando per i quattro anni di guerre jugoslave) e un’evoluzione della Nato (allargamento ad un numero consistente di Paesi dell’ex blocco sovietico) che, tra le altre cose, hanno imposto all’Italia scelte forti e nette di politica estera. Il quadro si è complicato ulteriormente dopo l’11 settembre e le invasioni di Afghanistan e Iraq. Sia nella prima guerra del Golfo, sia nei Balcani, sia nella cosiddetta “guerra al terrorismo”, l’Italia ha mostrato un’iniziativa politica e un approccio sostanzialmente bipartisan non scontato di fronte alla caotica evoluzione unipolare e poi multipolare.

L’impressione però è che oggi ci si trovi ad un nuovo punto di svolta. La “non conclusione” della parentesi irachena, le rivolte dei principali Paesi nordafricani (raccolte sotto lo slogan della “primavera araba”), il lento e costante riemergere della mai sopita volontà di potenza di Mosca (sottovalutata mentre si strutturava la nuova Nato) e infine un indubbio spostamento del baricentro geo-politico e geo-economico nell’Oceano Pacifico (pivot to Asia) impongono al nostro Paese una ridefinizione chiara della propria politica estera. In fondo, semplificando, si può dire che la spesso criticata classe politica della cosiddetta “Seconda Repubblica” ha applicato qualche “pezza”, in una situazione di indubbia emergenza. Ora è giunto il tempo di cercare un vero e proprio, anche se limitato in termini di ambizioni e di risorse, design di politica estera. Partendo da tre certezze.

La politica estera deve per forza di cose essere il più possibile bipartisan. Da questo punto di vista il ventennio trascorso ha gettato discrete basi sulle quali edificare il nuovo edificio.

In secondo luogo l’Italia del ventennio passato ha agito un po’ ovunque, nel timore di mancare qualche tavolo, ha vissuto una sorta di overstretching che oggi peraltro, vista la carenza di risorse economiche da destinare a esteri e difesa, non può permettersi. È allora necessario che, escluso l’ambito Ue che risponde in parte ad altri criteri operativi, Mediterraneo (flussi migratori ma anche energia, investimenti in Africa e non ultima lotta all’Isis) e Russia (Ucraina ma non solo) diventino i due cardini della proiezione italiana di politica estera.

Infine il design al quale si è accennato deve essere accompagnato da una “narrazione”. Come un recente studio condotto dall’IAI (vedi ) ha dimostrato (http://www.mentepolitica.it/articolo/gli-italiani-e-la-politica-estera-una-fiera-delle-contraddizioni/21) è indispensabile che il Paese e la sua opinione pubblica capiscano le principali scelte di politica internazionale. E da questo punto di vista l’arrivo alla Farnesina di un “politico” tout court non può che essere positivo. In fondo si è spesso insistito sulla qualità dei “tecnici” del nostro MAE, funzionari e ambasciatori di primo livello, molto stimati dagli altri partner internazionali. Al nuovo ministro spetta dunque il compito di valorizzare queste competenze e delineare, con il contributo dei colleghi di governo, quella trama e quella narrazione, così indispensabili per tutelare e garantire gli interessi e l’influenza di un Paese che, solo grazie ad una coerente e intellegibile politica estera, potrà davvero “ripartire” nell’attuale mondo globale.