Ultimo Aggiornamento:
30 novembre 2024
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Cattolici in Cina: storia e attualità di una questione insoluta

Claudio Ferlan - 22.11.2014
Una chiesa in Cina

È notizia degli ultimi giorni quella di un possibile riavvicinamento tra il Vaticano e la “Chiesa patriottica cinese”, necessario preludio all’eventuale inaugurazione di una nuova stagione dei rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica popolare, a oggi ancora pressoché inesistenti.

 

Una questione di sovranità

 

La difficoltà di relazioni tra Roma e Pechino ha radici lontane. Papa Clemente XI nel 1704 sancì l’illegittimità dei metodi missionari introdotti da Matteo Ricci e dai gesuiti, volti a concedere il massimo rispetto alle cerimonie e ai costumi cinesi, nella ricerca di una convivenza tra l’insegnamento cattolico e la tradizione locale. Ribadito nel 1742 da Benedetto XIV, il divieto segnò la fine dell’avanzata cattolica nel Celeste Impero. Decisiva fu la reazione risentita dell’imperatore Kangxi, che alla predicazione gesuitica aveva guardato con benevolenza, fino a promulgare un Editto di tolleranza in favore del cristianesimo (1692). Solo nel 1939 Pio XII avrebbe modificato la linea di condotta romana, consentendo ai cristiani di partecipare alle cerimonie civili. Lo stesso pontefice consentì la costituzione di una gerarchia ecclesiastica locale nel 1946, ma reagì alla nascita della Repubblica popolare cinese (21.9.1949) vietando ai cattolici di cooperare con il regime. Il riconoscimento di Taiwan da parte della Santa Sede (1951) condusse alla rottura dei rapporti diplomatici tra la Cina e il Vaticano. Ufficialmente banditi, i cattolici cinesi si organizzarono nella “Chiesa sotterranea”, ancora oggi attiva. Il 1957 salutò la nascita di una “Chiesa patriottica”, riconosciuta dal governo di Mao Zedong ma non dalla Santa Sede. Fu ancora una volta Pio XII a negare ogni possibile collaborazione, scomunicando i primi due vescovi nominati dalla “Chiesa patriottica”.

Il punto sul quale la Repubblica popolare cinese non ha mai inteso e non intende negoziare è la cosiddetta “triplice autonomia”: amministrativa, finanziaria e di apostolato. Il tema è espresso con chiarezza nell’articolo 36 della Costituzione (revisione del 1982): “Nessuna questione religiosa può essere dominata da un Paese straniero”. Il Vaticano, insomma, dovrebbe accettare di tenersi fuori dalle questioni ecclesiastiche, ma non lo vuole fare. Lo stallo dura da più di cinquant’anni e i segnali di risoluzione sono sempre rimasti, appunto, segnali.

 

È oggi il giorno del cambiamento?

 

Nulla in realtà induce a pensare che quanto successo in questo novembre 2014 possa fissare il momento di svolta, ma le aperture sono così rare da meritare una riflessione. Lo scorso 14 novembre, è stato liberato dallo stato di detenzione Giovanni Peng Weizhao, vescovo nella “Chiesa sotterranea” di Yujiang (Jiangxi), pur se sottoposto allo stretto controllo della polizia, con il divieto di esercitare il suo ministero episcopale. Altri vescovi “sotterranei” rimangono in carcere, è vero, ma la liberazione di Peng è senza dubbio una notizia di rilievo.

La seconda novità rimanda a quanto scritto dal “Global Times” (tabloid edito dal giornale ufficiale del Partito Comunista): la “Chiesa patriottica” avrebbe prospettato alla Santa Sede una possibile soluzione alla finora insoluta querelle sulla nomina dei vescovi. Il papa, secondo la proposta, potrebbe scegliere tra due nomi presentatigli dai vertici della “Chiesa patriottica”. Non abbiamo, al proposito, né smentite, né conferme ufficiali, ma la fonte della notizia ha un’autorevolezza tale da indurre a ritenerla fondata. La matassa rimane ingarbugliata, come dimostrato dallo stesso “Global Times” che negli stessi giorni ha pubblicato un articolo di Zhu Weiqun, capo della commissione Affari etnici e religiosi del parlamento. Zhu ha ribadito che “un membro del partito comunista non può assolutamente aderire a una religione. Questo è un principio ideologico e organizzativo che il partito ha sempre sostenuto fin dalla sua nascita. Non ci possono essere dubbi su questo”. Al di là delle ragioni politiche che stanno dietro alla presa di posizione di Zhu, è senza dubbio di non facile interpretazione l’ambivalenza presente in provvedimenti e prese di posizione che sembrano spingere ora da un lato, ora dall’altro.

Forse non sarà oggi il giorno del cambiamento, ma il lavoro – il più delle volte sotterraneo – delle diplomazie sembra davvero cercare con fatica di porre qualche pietra per la costruzione di un nuovo, ancora immaginario, edificio.