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Dibattiti sul referendum: una fiera delle vanità?

Paolo Pombeni - 01.06.2016
Festa della Repubblica

Sarà anche stato un errore di Renzi quello di aver iniziato la campagna referendaria con cinque mesi di anticipo, ma bisogna dire che i media, in specie i talk show televisivi, sembra non aspettassero altro, tanto siamo invasi da pseudo-dibattiti sul voto da dare ad ottobre.

Si fa un gran discutere se le TV (e i giornali) diano la preminenza a chi è a favore della riforma o a chi è contrario, ma l’impressione è che si dia spazio soprattutto a chi prende spunto dalla riforma per divagare, per buttare tutto in zuffa politica, magari esumando qualche personaggio che si credeva definitivamente tramontato.

Sebbene chi scrive sia un fruitore molto distratto ed occasionale di quanto offrono le baruffe televisive, non ha potuto fare a meno di notare che a lui è capitato più di vedere sulla scena personaggi da rissa piuttosto che di assistere a qualche autentico confronto di ragioni. Siamo stati sommersi di osservazioni sul ruolo che i media devono avere nell’informare documentando tutte le opinioni. Già, ma informare su che cosa? Su quale è l’opinione dell’attricetta che vota no perché ha avuto il padre partigiano, del politologo che respinge la tesi che il bicameralismo paritario sia praticamente sconosciuto nei sistemi costituzionali senza degnarsi di dirci in quali paesi di costituzionalismo pari al nostro ci sarebbe qualcosa di simile? Vale anche per la parte favorevole al sì, per lo più rappresentata da personaggi della politica partitica che fanno sfoggio di vis polemica più che di ragionamenti.

Proviamo a fare un semplice esempio, che, nella nostra modestia, riteniamo illuminante. In tutto il gran dibattito che si fa sul bicameralismo non ci è ancora capitato di sentire ricordato il tema fondamentale che sta alla base di questa scelta costituzionale: sottoporre le leggi alla valutazione congiunta di due Camere con origini rappresentative diverse. Notoriamente la distinzione risaliva all’esistenza di una camera che rappresentava “il popolo” (cioè l’elettorato più o meno generalizzato) e di un’altra che rappresentava “i migliori, i saggi” (per questo si chiamano ovunque “senato”, con la presunzione, oggi piuttosto discutibile, che l’anzianità anagrafica sia garanzia di maggiore assennatezza e posatezza).

Tanto per cominciare, in questa origine costituzionale la seconda Camera non era pensata per dare la fiducia al governo, ma solo per offrire una diversa visuale nell’esaminare le leggi. Ora qualcuno dovrebbe spiegare, a noi poveri cittadini di periferia, come si possono avere due visuali diverse se si hanno due camere scelte dagli stessi elettori. Forse che il cittadino vota con una mentalità per la Camera e pochi minuti dopo la cambia per compilare la scheda coi membri del Senato? La “fotocopia” nelle due istituzioni derivava da questo banale meccanismo, che si incarnava nella replica della scelta dello stesso partito per l’una e per l’altra sede, assai più che nella presenza di poteri molto simili. La “fotocopia” è venuta meno nel momento in cui la necessità di fingere che ci fossero due rappresentanze diverse immaginando meccanismi di natura diversa per la trasformazione dei voti in seggi e al tempo stesso il venir meno del ruolo di “disciplinamento” dei partiti tradizionali ha reso la seconda camera suscettibile di dare non una rappresentanza politica diversa, ma un diverso equilibrio di distribuzione delle appartenenze partitiche.

Su un tema come questo sarebbe interessante aprire una seria discussione. La riforma attuale propone di trovare la differenza di rappresentanza nell’origine “regionale” dei membri del nuovo senato. E’ una delle soluzioni classiche con cui si sono formate le seconde camere quando si è capito che la finzione di avere una “camera dei migliori” era dura da mantenere. Lo si è fatto bene o lo si è fatto male? Anche qui si sorvola sul dato banale che al momento non lo si è fatto ancora, perché manca la legge che disciplinerà i meccanismi di selezione dei nuovi senatori nel quadro della loro appartenenza ai consigli regionali (o nel ruolo di sindaci per una quota minoritaria).

Dunque di questo sarebbe interessante discutere, perché è qui che si giocherà davvero il buon funzionamento della riforma. Invece di tutto ciò nulla. Delle ragioni del no sappiamo poco: criticano il testo attuale, ma si guardano bene dal dire come secondo loro andrebbe fatta la riforma. Ovviamente perché il fronte è così variegato che non riuscirebbero a trovare una proposta comune, ma resta grave che chi critica una riforma non sappia dire con cosa la sostituirebbe, a meno che non concluda che è meglio lasciar stare tutto com’è. Sarebbe piuttosto buffo dopo trenta e più anni in cui praticamente tutti, professoroni e professorini, politici e politicanti, intellettuali impegnati e intellettuali indipendenti hanno passato il tempo a dire che il nostro sistema politico era giunto al capolinea e si doveva immaginarne uno nuovo.

Si badi: il sistema politico, cioè l’organizzazione dei poteri, non la Costituzione repubblicana che nei suoi principi e nelle sue architravi anche con la riforma attuale rimane del tutto intatta con soddisfazione di tutti quelli che nella Carta credono per davvero.