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Democrazia illiberale?

Paolo Pombeni - 21.09.2022
Letta e Calenda

Ci si conceda di toglierci dal frastuono elettoralistico che cresce in quest’ultima settimana e di affrontare, speriamo in maniera appropriata, un tema molto serio venuto malamente alla ribalta con la faccenda della condanna del parlamento europeo e della Commissione europea al sistema politico messo in piedi dal presidente ungherese Orban (vedremo poi se il Consiglio Europeo darà seguito a queste decisioni – ne dubitiamo).

Come tutti sanno, coloro che hanno approvato quella condanna hanno messo in rilievo che il sistema politico ungherese viola il modello costituzionale alla base del patto su cui si è costruita la Unione Europea. Quei non molti che hanno obiettato, fra cui in Italia Lega e FdI con i loro leader, l’hanno fatto sulla base dell’argomento che Orban è stato regolarmente eletto in competizioni almeno formalmente aperte. Dunque si sarebbero rispettate le regole della democrazia, che affida la sovranità al popolo, ma si è sorvolato sul fatto che il leader ungherese e vari suoi seguaci hanno apertamente parlato di “democrazia illiberale”.

Quella definizione è un ossimoro, ovvero una definizione che unisce due termini fra loro in contrasto, oppure non lo è, perché il liberalismo (meglio: il costituzionalismo liberale) è al massimo una delle forme che può assumere la democrazia, la quale potrebbe esistere anche senza di esso? Chi ha un po’ di competenza storica può fornire qualche elemento per dipanare la questione.

Certamente la presenza in un sistema di un meccanismo di natura elettorale competitiva per la scelta del decisore o dei decisori politici è esistita anche prima del legare la volontà del popolo ad un percorso di formazione che è riconosciuto come costante e al tempo stesso come in continua evoluzione per la dialettica fra parti che contiene. Il passaggio alla elezione del “capo” per sottrarre quella carica al principio ereditario è presente, per esempio, sin dalle origini nella Chiesa Cattolica nell’elezione del papa (ma anche dei vertici degli ordini religiosi), senza che ciò per lungo tempo abbia comportato un riconoscimento dei principi del costituzionalismo liberale. Da lungo tempo poi, non c’è dittatore o tiranno che non sia ricorso alla legittimazione delle urne per affermare il suo potere assoluto. Il popolo lo vuole, e facilmente si finisce per dire che quella parte di popolo che non lo vuole è da considerare estranea al “vero popolo”.

Certo questa visione fa parte della “patologia” dei sistemi e in forma radicale ed esplicita tende oggi ad essere ripudiata. Il fatto è che non basta avere un simulacro di sistemi elettorali competitivi (con oppositori di comodo, o comunque limitati nelle loro capacità di organizzazione) perché si possa parlare di democrazia e in ogni caso questo non è sufficiente per legittimare un sistema politico come appartenente alla sfera del costituzionalismo liberale che è il modello accettato che poniamo alla base della nostra comunità politica (deriva da una lunga storia di cui l’Occidente è o dovrebbe essere orgoglioso).

Sarebbe però miope non ammettere che il nostro costituzionalismo è in crisi. Il governare attraverso il confronto, che è alla sua base, si è troppo spesso isterilito nel riconoscere poteri di veto a chi non accetta di trovare punti di accordo e confluenza con le proposte della maggioranza con il risultato che non si riesce a decidere o che farlo richiede, proprio per il fiorire di sedi di “resistenza autorizzata”, tempi così lunghi da rendere poi inutili o inefficaci le misure prese. Ciò ha fatto sorgere la domanda di incrementare i poteri decisionali delle sedi di governo liberandole dalle zeppe di sedi di controllo che sono diventate non di rado sedi di difesa di vari corporativismi, burocratici, sindacali o semplicemente di esaltazione nei loro funzionari di assolutismi da loro stessi inventati.

Il vero pericolo che incombe sulla nostra democrazia costituzionale non è tanto il ritorno a dittature tiranniche (almeno per ora), quanto l’espandersi del groviglio fra ricerca di libertà di decidere da parte di chi vince le elezioni e difesa di tutti i possibili poteri di veto da parte di chi le perde. Il tutto senza rimettere formalmente in gioco il ricorso a sentire la “volontà del popolo” nelle elezioni, tanto si sa bene che un astuto uso discrezionale dei poteri di decisione è già un ottimo strumento per istradare il risultato delle elezioni successive.

Sono tentazioni presenti sia a destra, sia a sinistra: basta guardare l’uso che normalmente si fa nella distribuzione delle risorse pubbliche in materia di nomine, di scelte dei collaboratori, di assegnazione dei vantaggi. Magari il tutto viene fatto “digerire” all’opinione pubblica con un allargamento del campo di presunti “diritti individuali”, anche qui con versioni di destra e di sinistra. Così si allarga, più o meno artificiosamente, la libertà individuale in modo da ottenere il consenso per i detentori del potere autorizzati a spartirsi molte se non tutte le spoglie pubbliche.

La “democrazia illiberale” è un esito possibile che deve preoccuparci, ma che non si evita scegliendo un campo politico, bensì costringendoli tutti a tenersi lontani da quelle tentazioni.