Ultimo Aggiornamento:
20 aprile 2024
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Contro la revoca della cittadinanza

Bruno Settembrini * - 19.12.2018
Hannah Arendt Le origini del totalitarismo

Il decreto-legge in materia di sicurezza e immigrazione (n. 113 del 2018), il cui iter parlamentare si è appena concluso, contiene molti aspetti critici, che sono stati ampiamente commentati e analizzati. Ma vi è una norma, l’articolo 14, che, a me pare, è stata ingiustamente trascurata nel dibattito. É vero che si tratta di una disposizione simbolica, nel senso che difficilmente produrrà effetti pratici. Ma essa è simbolica anche nel senso che bene rappresenta quanto di inquietante è avvenuto in questi mesi con la chiusura dei porti e con la limitazione, di fatto, della possibilità di chiedere asilo politico in Italia (ed ogni persona in meno che giunge in Italia significa, nelle condizioni attuali, una persona in più torturata e stuprata nei campi libici).

 L’articolo 14 prevede, in presenza di una condanna definitiva per reati di terrorismo ed eversione, la revoca della cittadinanza per coloro che l’abbiano acquisita per matrimonio o naturalizzazione (ad esempio dopo dieci anni di residenza in Italia) e per gli stranieri nati in Italia e divenuti cittadini dopo aver risieduto in Italia legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età. Si creano così, di fronte alla medesima condanna, cittadini di serie A (quelli che non possono perdere la cittadinanza) e cittadini di serie B (quelli che possono perderla). Si dirà: la revoca è prevista per fatti gravissimi. Vero: purtroppo, però, con i tempi che corrono, potrebbe bastare un nulla per estenderla alle condanne per associazione mafiosa e, subito dopo, per corruzione o, perché no, per rapina; un’evidente assurdità. Ma è ancora un altro l’aspetto più grave: la norma non chiarisce se la cittadinanza potrà essere revocata anche a coloro che, per effetto della revoca, diverranno apolidi, cioè privi di qualsiasi cittadinanza. Nel silenzio del testo si deve ritenere che ciò potrà avvenire. In tal senso, si violano obblighi internazionali derivanti dall’adesione dell’Italia alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla riduzione dei casi di apolidia del 1961. E, soprattutto, si va contro la generale avversione, maturata dopo la seconda guerra mondiale, alla condizione di apolidia; si pensi all’articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 che, tra le altre cose, afferma che “ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza”.

Non a caso quando qualcosa di simile, dopo gli attentati del Bataclan, fu prospettato in Francia, la maggioranza socialista del presidente Hollande si spaccò e non se ne fece di nulla.

Ne Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt spiega bene la genesi di questo atteggiamento, richiamando la sorte vissuta dalle masse di apolidi create prima dalla rivoluzione sovietica e dalla dissoluzione degli Imperi successiva alla prima guerra mondiale nell’Europa centro-orientale e poi dalle politiche antiebraiche naziste: «un numero crescente di residenti dovette vivere al di fuori dell’ordinamento giuridico statale […] poiché l’uomo senza uno Stato era un’anomalia per cui non c’era una nicchia appropriata nella struttura del diritto generale, un fuorilegge per definizione, si trovava completamente alla mercé della polizia che non si faceva scrupolo di commettere qualche illegalità pur di diminuire il fardello degli indésiderables […] il loro [degli apolidi ndr] distacco dal mondo, la loro estraneità, sono come un invito all’omicidio, in quanto che la morte di uomini esclusi da ogni rapporto di natura giuridica, sociale e politica, rimane priva di qualsiasi conseguenza per i sopravviventi.»

Si può fare qualcosa per limitare il danno? Sì, occorrerebbe che il presidente Mattarella, che ha già promulgato la legge di conversione del decreto, inviasse ora un messaggio alle Camere per affermare che necessariamente, alla luce degli obblighi internazionali dell’Italia, la revoca della cittadinanza non si applicherà nel caso rischi di determinare l’apolidia, fermi restando i dubbi, da affrontare in altre sedi (nei tribunali e di fronte alla Corte costituzionale), sulla costituzionalità di questa e di altre disposizioni del provvedimento. Trattandosi di un dubbio interpretativo, il messaggio potrebbe costituire un utile ausilio, a differenza dei lavori parlamentari che, invece, in questo caso, non sembrano offrire molte indicazioni. Ma bisognerebbe trovare il coraggio di affrontare una crisi istituzionale e sfidare l’impopolarità.

Perché non mi faccio illusioni: queste mie considerazioni sono lontane dallo spirito dei tempi. Non si tratta della prevalenza di questo o quel movimento, di questo o quel leader. Leader e movimenti sono spesso inconsapevoli strumenti di forze profonde che stanno muovendo le nostre società. Forze che spesso nascono dai nostri fallimenti, dai fallimenti degli “amici della società aperta”. Ciò non significa però che non si debba rimanere fedeli, con la necessaria umiltà, ai valori in cui si crede, recitando bene la parte che il destino ci attribuisce.

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea.