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24 aprile 2024
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Come in uno specchio. Il successo di Zalone e gli italiani

Maurizio Cau - 09.01.2016
Zalone - Quo Vado?

Uno spettro si aggira nel cinema italiano. È quello di Monicelli, Risi, Sordi, Scola, Germi, Zampa. In due parole, della commedia all’italiana.

Succede ormai da anni che ogni film di successo che con leggerezza più o meno marcata prova a raccontare il Paese venga esaminato in controluce per scoprire i gradi di parentela che può rivendicare con uno dei generi e delle stagioni più alti del cinema nostrano. Poco importa che la cosiddetta commedia all’italiana non possa contare su un canone stilistico chiaro e condiviso; quello è il metro di misura con cui si esamina (e si giudica) ogni commedia prodotta nel nostro Paese. È ciò che capita ripetutamente con il cinema di Checco Zalone, il quale opera dopo opera si va emancipando dal registro comico di derivazione televisiva e si confronta con racconti più ambiziosi capaci di mettere in scena le varie facce dell’italianità. In questi giorni si assiste ai consueti giri di valzer della critica di settore: da un lato c’è chi riconosce in Zalone il nuovo maestro di un genere da (troppi) anni sepolto, dall’altro chi sottolinea la lontananza tra il registro sardonico e dissacrante di Luca Medici (il vero nome del comico pugliese) e le altezze registiche e drammaturgiche di un genere ormai consegnato alla storia.

La riconduzione del cinema di Zalone nelle strette maglie del genere non rappresenta però l’elemento centrale della questione. È più interessante capire come funziona e cosa attiva nell’immaginario degli spettatori che in questi giorni affollano le sale un cinema che ride di ciò che siamo senza farci, almeno non esplicitamente, la morale, faccenda riservata tradizionalmente al cinema d’autore dall’incedere più compassato e non di rado più involuto.

Il soggetto, è noto, si sviluppa intorno a uno dei capisaldi del sentire comune nazionale. Checco Zalone e Gennaro Nunziante (sua la regia, onesta ma senza nerbo) mettono in scena il sogno tutto italiano del posto fisso, meglio se statale. Un desiderio tanto radicato da essere difeso a ogni costo e in ogni condizione, anche di fronte all’inevitabile scure della spending review e alle robuste riforme imposte alla pubblica amministrazione. Si assorbono uffici, si chiudono le Province, ma il sogno non crolla se non sul finale, in cui a trionfare è la faccia bella del Paese, quella di chi è pronto a uscire dal bozzolo della mediocrità e si confronta col mondo accettandone le sfide. Perché il film, in fondo, è una sorta di rappresentazione della guerra di civiltà in corso tra l’italiano medio (quello che all’autonomia preferisce la mamma, alla giustizia sociale il privilegio, al confronto col mondo la sicurezza) e le sfide della modernità, quella che riconfigura le cornici familiari e il rapporto col mondo. Insomma, un film che con incedere semiserio racconta il culto del posto fisso elevato a religione («Cosa vuoi fare da grande?» chiede la maestra, «Io voglio fare il posto fisso»), le forme distorte dell’assistenzialismo statale, il drammatico vuoto di futuro creatosi intorno a una generazione, quella dei trenta-quarantenni, piegata dalle conseguenze di un sistema voluto e difeso dai propri padri, in cui il confine tra diritti e privilegi si è andato sempre più sfumando.

Nel cinema di Zalone la rabbia non esplode mai. Mettendola in burla, Checco smaschera la mediocrità di un Paese ripiegato su se stesso, abituato a pensare solo al proprio tornaconto e attraversato da un razzismo, un maschilismo e un egoismo striscianti; ma se con una mano graffia, con l’altra concede allo spettatore la possibilità di vedersi riflesso in un’immagine in fondo bonaria dei vizi nostrani. Certo, il finale sembra segnare un riscatto indicando la possibilità di un’emancipazione dal mito della sicurezza e dell’immobilità civile e culturale in cui l’Italia è stata a lungo avvolta, ma il modello che viene dal passato («La prima repubblica / Non si scorda mai / La prima repubblica / Tu cosa ne sai / Dei quarantenni pensionati / Che danzavano sui prati / Dopo dieci anni volati all’aereonautica / E gli uscieri paraplegici saltavano / E i bidelli sordomuti cantavano») non sembra aver smesso di ammaliare. Come se del mito fondativo della nazione (l’Italia è una Repubblica fondata sul posto fisso, sembra ricordare Zalone) si cogliessero sì i limiti e le conseguenze sociali, ma ammorbidite e attutite dalla convinzione che quella italiana è, in fondo, una mediocrità bonacciona. Spaccona e trasandata, certo, ma sostanzialmente innocua (il solito mito degli italiani brava gente) e capace addirittura di strappare un sorriso.        

Lo straripante, e per ora incontenibile, successo di sala spinge a interrogarsi sulla saldatura che si crea tra l’affresco (pungente ma mai giudicante) dell’irrimediabile mediocrità italica e le aspettative di un pubblico che in quella rappresentazione caricaturale si ritrova rispecchiato, ma che alla messa alla berlina del senso civico involuto e opportunista del Paese partecipa senza troppo disagio. Forse il segreto del successo senza precedenti sta proprio qui, nell’essere deliberatamente un film per tutti. Per chi nella comicità misurata e solo parzialmente scorretta di Zalone vede un’arma per smascherare le ipocrisie di un’intera nazione e per chi al carattere velatamente polemico e politico del sottotesto preferisce il piano più disimpegnatamente comico. In Quo vado? ce n’è per tutti. Per chi crede che a essere messa in ridicolo sia la parte sbagliata del Paese (ovviamente quella degli altri) e per chi si riconosce nell’indolenza scaltra e strapaesana dell’Italietta di Zalone ritenendo che quei tratti, magari non troppo nobili, sono pur sempre l’espressione più autentica, e dunque irredimibile e in fondo accettabile, dello spirito nazionale.

Un film con varie anime e a più livelli, dunque, che consentendo a ogni spettatore di sintonizzarsi sul registro discorsivo più prossimo al proprio finisce per piacere a tutti, o quasi. Compresi i critici che guardano con nostalgia all’età d’oro della commedia all’italiana e che in Zalone sperano di intravvedere, chissà se a ragione, un nuovo Monicelli.