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Bere ai tempi del Covid 19

Claudio Ferlan - 18.04.2020
Alcol

Per combattere le notizie false si deve partire dai dati, sembra scontato ma non lo è. Consapevoli di questa solo apparente ovvietà, iniziamo il nostro ragionamento attingendo dalle agenzie di stampa.

 

Vo’ Euganeo, Italia, 24 febbraio.  Tre ragazzi al bar si gustano l’aperitivo nel paese dove è possibile si trovi il paziente zero, responsabile del primo contagio da Coronavirus sul suolo italiano. Una giornalista scortata dal cameraman della propria rete  televisiva li intervista: «Non siete preoccupati?», chiede, ottenendo come risposta un disarmante e dissacrante «Ma no, c’è l’alcol che ci protegge».

 

New York, Stati Uniti, 22 marzo. Secondo l’analisi di mercato fatta dall’agenzia Nielsen nella settimana appena terminata le vendite di bevande alcoliche sono aumentate del 55% rispetto al 2019. Lo si deve soprattutto ai superalcolici (più 75%), ma pure vino e birra possono brindare (rispettivamente più 66% e più 42%). A New York i negozi di alcolici sono considerati attività essenziali dal governatore Andrew Cuomo e sono tra gli esercizi rimasti aperti, lo stesso succede in Massachusetts e in altri stati dell’Unione.

 

Nuuk, Groenlandia, 2 aprile. Il governo proibisce la vendita di alcool per cercare di scongiurare le violenze domestiche da quarantena. Dopo la chiusura di scuole, bar, ristoranti e altri luoghi di svago è toccato agli alcolici: vietarli, ha dichiarato il primo ministro Kim Kielsen, è stata una decisione presa con il  pensiero soprattutto alla sicurezza dei bambini. Nel paese, infatti, gli episodi di abusi tra le mura di casa non sono pochi e dopo due settimane dall’inizio della quarantena gli osservatori hanno registrato un preoccupante incremento. La misura restrittiva dovrebbe servire anche a rendere le persone più consapevoli dei pericoli legati all’ubriachezza, o almeno è questa la speranza di chi l’ha dettata.

 

Ginevra, Svizzera, sede dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 15 aprile. Non credete alle false notizie: gli alcolici non possono uccidere il Coronavirus ci informa la OMS. Al contrario, berne all’eccesso genera dipendenza, nuoce alla salute (aumenta per esempio il rischio di contrarre tumori), anche quella mentale, compromette il sistema immunitario. Si dovrebbe bere di meno in quarantena, mica di più. Dunque nessuna scusante per la quarantenne che, fermata nel Viterbese ubriaca alla guida, si è difesa (possiamo immaginare con parole strascicate ed eloquio incerto) dicendo di avere bevuto per proteggersi dal male.

 

Perché beviamo? Se lo sono chiesto in tanti, storici e antropologi hanno dato risposte molto diverse e, come spesso accade, non si dovrebbe andare troppo lontani dalla realtà accettando la quota di attendibilità presente in ciascuna di esse, senza attribuire a nessuna la verità assoluta. Le prime opinioni misero in collegamento il notevole aumento del consumo alcolico nell’Europa dei secoli XVI e XVII con il crescere delle tensioni sociali e della povertà, basandosi su quello che è stato definito «il modello della fuga dal disagio», utilizzato anche per spiegare l’attitudine all’ubriachezza dei popoli amerindi dopo l’impatto con le culture europee. La gestione delle relazioni con i nuovi arrivati avrebbero portato alcuni singoli come anche interi gruppi ad arrendersi davanti all’impossibilità della convivenza, lasciandosi andare verso una dimensione di obnubilamento e rifiuto della realtà, aiutati da buone dosi di bevande o sostanze eccitanti. Bere per dimenticare. Un meccanismo non sconosciuto alle società contemporanee, richiamato per spiegare il comportamento di chi decide di perdere il senno o la memoria in fondo a un bicchiere.

 

Esistono però altri motivi, altre spiegazioni. Studi dedicati alla Francia e alla Germania hanno dimostrato che nelle taverne di età moderna si beveva per fare o sentirsi parte di una certa ritualità sociale. Condividere, offrire, brindare erano tutti gesti importanti sia per stringere e rinforzare legami, sia per favorire la costruzione di identità collettive. Ulteriori ricerche su comportamenti tenuti anche in altre parti d’Europa hanno rivelato come bere in abbondanza potesse servire anche a dimostrare industriosità, forza e resistenza. Per non parlare delle autoproclamatesi élite culturali del Settecento, abituate a incontrarsi per bevute comunitarie in club esclusivi, dove si celebravano le virtù del vino e il suo potenziale creativo.

 

Studiosi di diverse discipline hanno suggerito un altro modello di interpretazione della sbornia: la grande fortuna di sostanze inebrianti ed eccitanti nelle società indigene dopo la colonizzazione potrebbe essere legata alla nostalgia del passato, dunque un ribaltamento dell’idea del bere per dimenticare. Anche in questo caso si era mossi dall’esigenza di fuggire il disagio, ma attraverso strade diverse. I rituali degli anni precedenti la conquista erano in certe culture caratterizzati da un significato religioso e da una concezione di moderazione poco familiare agli osservatori europei: sbronzarsi sì, ma solo in determinati contesti e a precise condizioni. Perché abbandonarli? L’ubriachezza pertanto avrebbe potuto difendere la cultura del passato, in opposizione alle pretese moraliste dei nuovi venuti: bere per ricordare.

 

Aggiungiamo, per completezza, che alcune ricerche in campo biologico hanno ipotizzato la ragionevolezza della sussistenza di un’attrazione genetica verso le bevande alcoliche.

 

Abbiamo dunque dipinto un quadro complesso, attraverso il quale si manifesta composita e sfumata la riposta alla domanda sul perché si consumano più alcolici in situazioni di disagio quali l’attuale quarantena. Probabile che ciascuno abbia la sua risposta, chi dimentica, chi sogna di rinnovare sociabilità e compagnia, chi ricorda momenti passati, chi cerca ispirazione, chi è attratto, magari in qualche misura anche patologicamente. Non sottovalutiamo però il potere del gusto, per il quale vale la pena uscire a comprare un buon cicchetto e consumarlo davanti all’ennesima serie televisiva, cercando magari di mantenersi sobri e moderati.