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Apple a Napoli: cercasi app

Patrizia Fariselli * - 11.02.2016
Apple a Napoli

Un paio di settimane fa in Italia ha ricevuto molta attenzione mediatica l’incontro tra Renzi e il CEO di Apple Tim Cook nella cornice dei damaschi di Palazzo Chigi e davanti a una tazzina di vero caffè, per dare risonanza al massimo livello all’annuncio della creazione a Napoli del primo centro di sviluppo app iOS  in Europa. La stampa e la TV italiane hanno riportato la stessa notizia nello stesso modo, niente più che un’agenzia di 22 righe gentilmente diffusa da Roma dall’ufficio stampa di Apple basato in +44, verosimilmente Irlanda. Siccome il premier Renzi ha detto che “la Apple farà 600 posti di lavoro a Napoli” la notizia è di quelle che fanno esplodere i mortaretti, e dunque siamo andati a cercare i dettagli. Ma non li abbiamo trovati, e non disponendo di contatti privilegiati con le fonti americane, romane o napoletane direttamente coinvolte, abbiamo cercato di farci un’idea in piena solitudine informativa.

Nel comunicato stampa di Apple si parla estesamente della leadership di Apple nell’innovazione e del ruolo maieutico di Apple Store alla crescita di una “vibrant” comunità di sviluppatori di app (1,2 milioni di posti di lavoro in Europa, oltre 75.000 in Italia) e al suo prosperare (10.2 miliardi di Euro di ricavi dalla vendita di app nel mondo). L’iniziativa a Napoli riguarda la creazione di un centro di formazione per fornire a studenti “skills and training” per lo sviluppo di iOS app che concorrano a rafforzare “seamless experiences” entro l’ecosistema Apple generato dalle quattro piattaforme software (iOS, OS X, watchOS, tvOS), dai corrispondenti dispositivi (iPhone, iPad, Mac, Apple Watch e Apple TV) e servizi (App Store, Apple Music, Apple Pay, e iCloud). Il Centro sarà collocato presso un’istituzione partner a Napoli ma Apple lavorerà anche con altri partner in Italia per acquisire risorse (insegnanti, studenti, programmi) per costruire un curriculum specializzato. Si fa riferimento alla valorizzazione della creatività che alligna nel nostro paese, ma non si quantifica l’investimento né la sua ripartizione con le istituzioni partner. Si apprende, non dal comunicato stampa, che un’iniziativa simile è già stata lanciata da Apple in Brasile e un’altra è in cantiere in Indonesia.

Se volessimo ricostruire una storia utilizzando solo alcune delle parole chiave che con effervescente frequenza si susseguono nella narrazione della socio-economia digitale dei giorni nostri, potremmo dire che nella connected society e nella Internet economy il ricorso alla open innovation si materializza nel mercato delle app.  Ma di che cosa stiamo parlando? Proviamo a tradurre la narrazione nella collaudata, funzionale e sempreverde terminologia: domanda,  offerta, imprese, ricavi, costi, profitti.

Nella società e nell’economia pervase dalle tecnologie digitali l’offerta e la domanda sono dominate dalla struttura di rete; la leadership va alle imprese che dispongono di piattaforme Internet su cui offrono prodotti e servizi a consumatori che si configurano come identità digitali connesse in rete; i ricavi derivano dalla capacità di catturare e fidelizzare consumatori alla propria piattaforma, penetrando le loro identità digitali e rivendendone i profili agli acquirenti di pubblicità;  i profitti dipendono dall’espansione del fatturato - dovuta alla valorizzazione della piattaforma, alla varietà dei prodotti, servizi, attività  offerti sulla stessa, alle economie di rete - e alla minimizzazione dei costi. L’innovazione è sempre più legata alla capacità dell’impresa di far fruttare il controllo della propria piattaforma offrendo la “seamless experience”, e cioè un’esperienza di consumo e partecipazione senza soluzione di continuità alla variegata offerta dell’impresa che fa perno sulla piattaforma. Le app consentono appunto di migliorare l’offerta delle imprese/piattaforme assicurando la compatibilità e l’interoperabilità della varietà degli ambienti (es. reti mobili, social, dati, intrattenimento, ecc.) e dei prodotti all’interno dell’”ecosistema”. La connettività  diffusa  non contribuisce a sfumare solo i confini tra i prodotti dell’offerta delle imprese/piattaforme, ma anche i confini tra i ruoli, ad esempio quelli tra generatori e utilizzatori di innovazione (open innovation).

Le app, infatti,  possono essere sviluppate in tre modalità: a) in-house nei laboratori delle imprese/piattaforme, b) da imprese che operano in altri settori (ad es. finanziario, retail, media) per rispondere a esigenze specifiche dei loro mercati, c) da sviluppatori indipendenti che le vendono direttamente o che lavorano a contratto per conto delle due precedenti categorie di imprese.  Uno studio realizzato per la Commissione Europea nel 2014 (http://www.eubusiness.com/topics/internet/app-economy/)  stima che sviluppatori europei di app realizzino il 42% dell’intero fatturato generato da app in Europa e negli USA, la stessa quota che viene attribuita anche agli sviluppatori americani.  Nel 2013 gli sviluppatori indipendenti europei hanno maturato 17,5 miliardi di Euro, di questi 6,1 miliardi sono stati realizzati con le vendite dirette di app e di pubblicità, 11,4 miliardi da contratti di lavoro per altre imprese. Bisogna ricordare che dai 6,1 miliardi vanno detratte le commissioni che gli sviluppatori devono versare alle piattaforme sulle quali operano la vendita delle app. Infatti, per vendere le app innanzitutto occorre registrarsi presso l’App Store (per app iOS) o presso Google Play (per app Android), il costo della registrazione è di 25 $; inoltre, in seguito alle vendite Apple e Google trattengono il 30% dalle entrate degli sviluppatori (Google prima chiedeva il 20% ma ha aumentato la quota). Gli sviluppatori indipendenti si dividono tra startup/hobbisti (39%) e grandi imprese (37%). Queste ultime hanno un maggiore potere di mercato: le prime 5 tra le top 50 europee detengono circa il 50% del mercato e sono tutte imprese che producono app nel settore dei giochi. Solo Germania, Francia e Gran Bretagna hanno un significativo numero di imprese che operano fuori dal mercato domestico, l’Italia nessuna.

Dunque, si può ragionevolmente supporre che Apple, oltre a trarre vantaggio (rendita) dalle innovazioni di creativi che operano fuori dall’impresa, sull’indistinto crinale tra domanda e offerta in cui si realizza la cosiddetta open innovation, intenda strutturare il bacino degli sviluppatori indipendenti di app per aumentarne la qualità e la produttività, allo scopo di diminuire la aleatorietà di questo serbatoio indipendente di soluzioni innovative e di aumentare la rendita. Sul lato dell’offerta di app, gli sviluppatori indipendenti napoletani/italiani potranno godere di economie di scala e di rete altrimenti fuori dalla loro portata e – forse – di condizioni contrattuali più vantaggiose, ma probabilmente al costo di una minore indipendenza nella scelta del mercato di riferimento e di una limitazione legale al passaggio da start-up a grande impresa nel settore delle app, che è quanto farebbe davvero la differenza. Al momento questo non lo sappiamo, ma siamo inclini a pensare che se si creeranno 600 (?) posti di lavoro (ma quali? quando? dove?) questi saranno strettamente agganciati all’ecosistema di Apple, e saranno in competizione con quelli brasiliani e indonesiani in un segmento minore della catena globale del valore della Internet economy. Meglio di niente e speriamo che sia una leva per mobilitare risorse, ma se - come qualcuno insinua - il Centro iOS di Napoli è il pendant del patteggiamento di Apple con il fisco italiano (pagamento di 318 milioni di Euro a fronte di un’evasione contestata di circa 879 milioni) sembra una misura il cui impatto mediatico è inversamente proporzionale alla sostanza.

 

 

 

 

* Patrizia Fariselli è docente di Economia dell'innovazione presso l'Università di Bologna