Primarie USA 2016: vittorie per Sanders e Trump. L’Antipolitica varca l’Atlantico

Dal New Hampshire arriva il doppio – e annunciato – schiaffo ai vertici del partito Repubblicano e Democratico. Grazie alle vittorie nette di Donald Trump, da una parte, e Bernie Sanders, dall’altra, il dibattito americano fa i conti in maniera ufficiale, per la prima volta, con quel fenomeno planetario ormai impropriamente chiamato “antipolitica”. Un vento che ha trovato spinta, nel piccolo Stato della regione del New England, in due candidati agli antipodi, pronti a calcare la mano sui temi più radicali per sfidare apertamente un establishment mai tanto confuso, specie in area repubblicana. L’unico aspetto in comune tra i due vincitori è la fascia anagrafica: 74 anni il democratico senatore del Vermont, 69 per l’uomo d’affari prestato alle presidenziali. Non proprio la fase della vita in cui si progettano rivoluzioni, verrebbe da dire.
Rispettando i sondaggi della vigilia e gli exit poll, Sanders ha agevolmente superato Hillary Clinton di oltre venti punti – 61% contro il misero 38% raccolto dall’ex first lady – favorito dall’elettorato femminile e prevalentemente giovane, zoccolo duro del suo seguito elettorale. Durante il discorso di celebrazione della vittoria in New Hampshire, l’anziano candidato “socialista” – come ormai viene bollato da larga parte dei media – ha nuovamente dimostrato di sapersi accattivare le simpatie delle età più basse della popolazione, facendo il verso alla propria imitazione del famoso programma tv satirico “Saturday Night Live”. Più rilevante, invece, dal punto di vista storico è come la vittoria di Sanders in New Hampshire rappresenti in assoluto la prima affermazione di un cittadino americano di origine ebrea alle primarie per la Casa Bianca. Benché lui stesso confermi di credere in Dio, ma senza seguire alcuna religione organizzata, diversi organi di stampa israeliani – come il Jerusalem Post - hanno salutato il successo di Sanders come una data da ricordare per tutta la comunità. C’è, comunque, da sottolineare che, al momento, questo aspetto meno conosciuto dell’avversario di Hillary Clinton non avrebbe alcuna influenza nella sua raccolta fondi: il sostegno economico a Sanders arriva infatti, come fu per Obama otto anni fa, principalmente da micro donazioni individuali, calcolate nella media di 27 dollari a testa. Del resto, un programma fortemente incentrato sull’indebolimento delle lobby di Wall Street difficilmente può allettare grandi gruppi finanziari. Sul fronte democratico, insomma, dopo il “quasi pareggio” in Iowa e il risultato netto di ieri notte, la corsa alla nomination è quanto mai aperta e appassionante.
Regna il caos, invece, dall’altra parte della barricata, in quel partito Repubblicano ormai trasformato in una Babele di condizionamenti, mini correnti, gruppi di pressione e personalità improbabili alla ribalta. Nessuno, un anno fa, avrebbe scommesso un dollaro su Donald Trump alla Casa Bianca. La sua sembrava più che altro una candidatura-esca, utile a occupare i media per una fase preliminare, scaldando le aree più intransigenti del partito in vista delle primarie vere e proprie. Oggi, invece, nessuno più del tycoon newyorchese può sentirsi in pole position per la nomination, avendo alle spalle un manipolo di avversari litigiosi e incapaci di arrivare a una sintesi tra le varie anime del partito. Il vincitore dei caucus Ted Cruz, è sparito dai radar in New Hampshire, dove la comunità di evangelici – suo maggiore “azionista” – è pressoché inesistente. Dietro a Trump – che ha portato a casa il 35% dei voti – è invece spuntato il governatore dell’Ohio John Kasich, il quale non sembra, però, in grado di insidiare i favoriti, avendo investito nel piccolo Stato dell’est tempo e risorse più di ogni avversario, ma non in maniera sufficiente per strappare la vittoria. Così, va posto in evidenza il quarto posto del redivivo Jeb Bush, ormai spacciato dopo il flop in Iowa e invece ancora in piedi per la grande incertezza di cui è preda l’elefantino. Chi ha deluso le aspettative, semmai, è stato quel Marco Rubio che, da tempo, veniva indicato come l’uomo giusto per riunire le lacerazioni del partito. Ma la scorsa settimana, il giovane senatore della Florida, durante un dibattito con gli altri candidati, si è reso protagonista di un paio di inattese scivolate, che ne hanno seriamente rimesso in discussione il profilo. Insomma, sembrano lontani i tempi in cui il “Grand Old Party” conferiva rapide investiture ai propri favoriti, sospinti dai grandi gruppi petroliferi e industriali, a conferma che un processo di rimescolamento senza precedenti – non solo di personalità e programmi – è in atto anche nella solida politica americana.
Ora, l’attenzione si sposta verso ovest per i democratici, mentre la carrozza dei Repubblicani muove in direzione sud. Il prossimo 20 febbraio, il terzo round della sfida Sanders-Clinton avverrà in Nevada, ulteriore Stato in cui Hillary non coltiva troppe speranze. Dall’altro lato, Trump, Cruz, Rubio e Bush se la vedranno in South Carolina, dove a guidare i sondaggi è, ancora una volta, l’uomo d’affari che promette, se eletto presidente, di chiudere le frontiere ai musulmani e di costruire un muro al confine con il Messico.
Si tratterà degli ultimi appuntamenti preliminari, in vista del primo marzo, il Super martedì, quando saranno assegnati contemporaneamente i delegati di ben undici Stati. Da quel momento si inizierà a fare sul serio e si scopriranno non solo le reali chance di Trump e Sanders ma, soprattutto quale strada prenderà l’America dopo Obama: il rifugio della tradizione, oppure la rottura definitiva degli schemi, scuotendo dalle fondamenta il suo secolare modello politico.
* Classe 1984, giornalista professionista, sociologo, dottore magistrale in “Mass-media e politica”. Ha svolto esperienze in Rai (sede di New York) e Sky.
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