Alle origini del "caso italiano": il voto del 4 marzo (2)
Nel nostro viaggio dedicato al voto del 4 marzo scorso, dopo l'inquadramento generale (per il quale abbiamo fatto ricorso al volume di Bordignon, Ceccarini e Diamanti "Le divergenze parallele" - Laterza) passiamo ad analizzare il soggetto politico che ha ottenuto il maggior progresso elettorale (dal 4% del 2013 al 17% del 2018) e che - nei mesi seguenti - è salito ancora nelle intenzioni di voto rilevate dai sondaggi, fino a raggiungere quota 30-32%: la Lega di Salvini. Il partito dell'attuale ministro dell'Interno ha prima capitalizzato - in cinque anni, con un picco fra febbraio e inizio marzo 2018 - l'ondata di paura e protesta del Nord e del Centro (con una moderata ma significativa espansione al Sud e nelle Isole), poi ha ottenuto un progresso analogo nei pochi mesi di governo. Si tratta di un caso - non unico, ma raro - di un soggetto che, con una storia di sistema-antisistema alle spalle (le spinte secessioniste degli esordi, poi i lunghi anni di governo col centrodestra di Berlusconi, quindi il ritorno all'opposizione e la svolta di Salvini nel 2013-2014) ha conquistato consensi manifestandosi prima come "partito di lotta" (2014-2018) poi come "partito di lotta che sta al governo". Le vicende della Lega sono narrate, sul piano storico e su quello dell'analisi dell'elettorato e della classe politica, da Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, nel loro "La Lega di Salvini" (Il Mulino). Come osservano gli autori, il più antico partito italiano fra quelli presenti in Parlamento (la Lega lombarda vi entra nel 1987) attraversa nel 2012-2013 la più grave crisi della sua storia, con la fine politica del suo leader carismatico (Bossi), ma risorge dalle ceneri (e da quel 4% che è sempre stato lo "zoccolo duro" del Carroccio) con un nuovo capo e spostando il bersaglio della propria carica antisistema dall'unità d'Italia all'Unione europea, posizionandosi più decisamente a destra (accantonando i proclami antifascisti del Bossi del '92-'94, ma restando prudentemente nel limbo di una visione preoccupata più del presente e del futuro "degli italiani" - non più dei soli "padani" - che del passato e delle pagine meno edificanti della nostra storia). Mentre l'astro di Bossi si eclissa e quello di Berlusconi è oscurato dalle sconfitte elettorali e dalle vicende giudiziarie ("espulsione" dal Senato compresa), Salvini comincia a riorganizzare la Lega, "operando una profonda virata politica e culturale". Come scrivono Passarelli e Tuorto, "su molti temi rimane in continuità" perché "se ambisce oggi a diventare un partito nazionale, è ancora una chiara espressione degli interessi sociali, economici e politici del Nord". Lo si vede anche nelle scelte compiute dal governo Conte in materia economica: quelle leghiste (riforma della legge Fornero e flat tax) paiono avvantaggiare maggiormente i residenti nelle regioni centrosettentrionali (il reddito di cittadinanza voluto dal M5S, che invece andrà in gran parte al Sud, è poco citato dalla Lega, sapendo che una parte della base elettorale del Nord non lo gradisce). Il percorso di Salvini verso la "sua" Lega (quella che ha tolto il Nord dal simbolo e sostituto il verde padano con il blu "sottratto" alla vecchia CDL, il patrimonio elettorale della quale è l'obiettivo di conquista di Salvini) non è stato facile, anche per la persistenza di articolazioni e leadership locali o legate a Bossi, oppure facenti capo ad altre personalità (Tosi) potenzialmente in grado di ostacolare il dominio assoluto del "Capitano" sul suo partito. Il "colpo assestato dalla crisi del cerchio magico di Bossi è stato doloroso, profondo e lontano dal rimarginarsi", con le sezioni passate da 1400 a 400 circa in sette anni: "di questo declino non è responsabile Salvini, che però non ha fatto nulla per invertire la tendenza, con la scelta deliberata di far contare meno l'organizzazione del partito rispetto al party in central office. Inoltre, ha deciso di conservare l'appuntamento di Pontida, consapevole dell'importanza del partito territoriale, ma lo ha fatto con meno enfasi rispetto al passato, perché la manifestazione non fungesse da stigma e intimorisse gli elettori più urbanizzati o a sud del Po". Per quanto riguarda gli elettori dei grandi centri, in effetti, lo scopo è stato raggiunto in minor misura che altrove: alle elezioni del 4 marzo il progresso leghista è stato del 13,8% nei comuni non capoluogo di regione ma "solo" del 10,6% nelle "capitali regionali" (si veda, a tal proposito, il mio "Capitali regionali" - Il Mulino, 2018); si tratta di una difficoltà di sfondamento nelle metropoli tipica di tutte le macroaree del Paese. Come rilevano Passarelli e Tuorto, "è interessante la similitudine tra il voto leghista e quello per il Front National. Gli studi dei politologi francesi hanno segnalato da anni quanto il consenso per il partito lepenista incrementi all'aumentare della distanza dai centri urbani ove si concentra un numero maggiore di cittadini di nazionalità non francese. Secondo Pascal Perrineau si tratterebbe della cosiddetta paura dell'eco politica dell'anomia urbana, cioè della percezione del rischio potenziale che quanto succede nelle città, nelle metropoli, possa accadere anche nelle periferie rurali, ossia che un fenomeno quale l'aumento dei voti per un partito anti-immigrati possa manifestarsi anche nei luoghi in cui gli immigrati non sono tanti, ma vengono percepiti come una presenza possibile". Tuttavia - aggiungiamo noi - in alcuni quartieri periferici delle grandi città popolati anche da non pochi immigrati, l'aumento dei voti alla Lega (rispetto alle zone più agiate) è comunque notevole (in questi agglomerati urbani, però, anche il M5S raccoglie molti consensi supplementari rispetto a quelli dei centri storici), senza contare che la maggior presenza di immigrati in Italia è concentrata nel Centronord leghista, non (o poco) nel Sud pentastellato. Tornando alla strategia, l'obiettivo principale di Salvini, da subito, è stato quello di approfittare di un doppio spazio politico vuoto: quello creato dalla crisi del centrodestra e quello di un malcontento sociale percepito e/o reale che non riusciva a trovare risposte del tutto convincenti nell'opposizione del M5S, temendone alcuni caratteri "di sinistra" (appartenenti, per lo più, al “grillismo” dei primissimi anni). Sul piano ideologico, la Lega ha accantonato il federalismo per sposare "un'ostilità palesemente espressa nei confronti del fenomeno migratorio" e attuando "un riposizionamento nello scenario politico internazionale fra le formazioni che contestano l'Europa, l'euro e gli accordi commerciali". L'enfasi sul tema dei politici corrotti, tipica del M5s, è fatta propria anche dal Carroccio per fronteggiare la concorrenza pentastellata, ma "si applica più alle élite transnazionali, in quanto l'assunzione di posizioni sovraniste deriva soprattutto dal riposizionamento del partito su scala europea". Inoltre la congiuntura sociale, politica e mediatica aiuta Salvini: "mentre la composizione socioeconomica degli elettori della Lega non varia in modo significativo in base alla zona di residenza, cambiamo invece le percezioni. La paura di perdere il lavoro è maggiormente segnalata dai leghisti del Nord rispetto a quelli del Sud e sempre al Nord si riscontrano le valutazioni più negative circa la situazione economica. Emergerebbe quindi" - secondo Passarelli e Tuorto - "un certo effetto dei contesti territoriali di riferimento nel plasmare non tanto le condizioni, quanto le percezioni degli elettori". La competizione elettorale con i Cinquestelle (se non per fasce di votanti comuni, per esempio i delusi dal vecchio centrodestra del 2008-2011) esiste ma non è eccessivamente significativa, mentre quella col Pd è stata enfatizzata (in Emilia-Romagna, per esempio, il progresso della Lega è dovuto alla cannibalizzazione del patrimonio ex "azzurro", ma solo in piccolissima parte - fra il 5 e il 10% - ad apporti di ex votanti Pd). In pratica, il diverso valore dato dagli elettori del Centronord e del Sud a "issues" e offerte politiche coincidenti solo su alcuni punti (sul "contro", diciamo, più che sul "pro") ha permesso a Lega e Cinquestelle di dividersi il primato nel Paese. Tra chi ha votato Lega, secondo Passarelli e Tuorto, l'immigrazione appare più un pericolo culturale che economico: "tra gli elettori leghisti l'immigrazione resta un problema particolarmente sentito, più della disoccupazione, mentre la priorità si inverte tra chi ha scelto il M5s". In altre parole, come si accennava, "Lega e M5s sono votati da cittadini più diversi tra loro che simili. A discriminare non è solo il tratto sociodemografico ma soprattutto gli atteggiamenti e gli orientamenti politici. L'elettore della Lega è più propenso ad appoggiare posizioni di chiusura, siano esse verso le minoranze (immigrati) o le élite (le istituzioni sovranazionali europee) e allo stesso tempo è fortemente ancorato ad orientamenti pro mercato sull'economia; quello grillino presenta un profilo più incerto, multistrato per la compresenza di posizioni diverse su quasi tutti i temi politici. Entrambi i partiti intercettano l'elettorato che esprime condizioni o percezioni economiche negative, di disagio e malessere, ma solo (o soprattutto) la Lega intercetta anche quei ceti sociali più benestanti che chiedono di pagare meno e di ricevere di più, che rifiutano di perdere o anche solo di condividere le posizioni di vantaggio acquisito", concludono gli autori di "La Lega di Salvini" (Il Mulino). Tornando così a quanto aveva spiegato Ceccarini nel volume del quale abbiamo dato conto nella scorsa puntata del nostro viaggio ("Le divergenze parallele", Laterza), dicendo che i "vincitori comunitari" votano prevalentemente centrodestra, mentre è nel campo dei "perdenti cosmopoliti" che prevale il M5S e in quello dei "perdenti comunitari" si gioca la partita fra Carroccio e pentastellati. (2-Continua)
di Luca Tentoni
di Gianpaolo Rossini