Alla ricerca di un “vincitore”
Alle prossime elezioni regionali siciliane e alle "politiche" del 2018 assisteremo alla consueta disputa sull'interpretazione del voto. Ne avremo tre: quella degli esperti, tendenzialmente avalutativa e basata su molteplici criteri; quella della stampa, mirante a semplificare e a proclamare vincitori e sconfitti; quella dei partiti, che cercheranno a far propria l'interpretazione - fra tutte quelle proposte - per loro più lusinghiera, dunque vantaggiosa. Il problema della valutazione dei dati fa parte ormai del gioco politico: si può dire che è la fase supplementare della campagna elettorale, perchè - a livello di comunicazione - non basta (si può dire: talvolta non è neppure necessario) vincere ma bisogna trasmettere - inverare mediaticamente - l'immagine della propria affermazione. Ecco perchè occorre tenere distinta, nella lettura dei risultati da parte dell'opinione pubblica e della stampa, l'analisi scientifica operata dagli esperti da quella politica, veicolata dai partiti. Poichè talvolta i dati possono essere confrontati e analizzati prendendo come riferimento precedenti diversi (in ordine di tempo o di tipo della competizione) o campi particolari (territorio, condizione socio-culturale, PIL, classi di età) o privilegiando alcuni risultati (il numero dei seggi o dei voti in percentuale, per esempio) rispetto ad altri (i voti assoluti, l'incremento o il decremento in voti anzichè in percentuale) può capitare che si ingeneri un po' di confusione nel lettore medio, soprattutto se chi veicola il messaggio (l'organo di stampa, l'utente del social network, il partito) mette in luce solo il dato a lui favorevole, "ripescando" opportunamente quello negativo (che magari è l'unico, in un quadro positivo) dell'avversario politico. C'è da domandarsi, dunque, se esista un criterio semplice, oltre alla percezione diffusa (che può rivelarsi fallace) per comprendere l'esito del voto. Tutto ciò è legato alla complessità della competizione: se ci trovassimo di fronte all'elezione di un deputato nel collegio uninominale della Valle d'Aosta e avessimo solo due contendenti, sarebbe agevole individuare criteri univoci per proclamare la vittoria. In primo luogo, l'elezione, che avverrebbe con la maggioranza assoluta dei voti validi (metà più uno); in secondo, il raffronto con l'elezione precedente (se caratterizzata dalla presenza di due candidati dello stesso partito o addirittura degli stessi candidati). Anche in questo contesto, tuttavia, si potrebbero trovare appigli per un'interpretazione "politica" dell'elezione. Se A vincesse con il 55% dei voti anzichè con il 70% della volta precedente, si potrebbe sottolineare il fatto che la distanza con B si è ridotta da 40 punti percentuali a 10 (una notevole “rimonta”: inutile per conquistare il seggio, ma mediaticamente “spendibile”). Allo stesso modo, un'elevata astensione aggiuntiva rispetto al turno precedente potrebbe far parlare di disaffezione, di esito scontato ma "macchiato" dalla scarsa affluenza alle urne. Lo stesso sistema elettorale può "provocare" alcuni problemi interpretativi: negli USA, per esempio, Hillary Clinton ha ottenuto più voti validi (2,8 milioni) di Donald Trump, ma ha avuto meno delegati (77), dunque ha perso la competizione per la Casa Bianca. Poichè nella tradizione statunitense non conta altro se non la conquista della presidenza, quasi nessuno ha rimarcato il fatto che Trump fosse risultato secondo nel voto popolare. In Italia, probabilmente, la nostra cultura politica ci avrebbe fatto parlare per anni di un Presidente "dimezzato", se non addirittura (con un termine che da noi è usato quasi sempre a sproposito) di vincitore "illegittimo", "non uscito dalle urne". Immaginiamo cosa sarebbe accaduto, nel 2006, se la vittoria dell'Unione di Prodi alla Camera - ottenuta per soli 24 mila voti - fosse stata contestata (oltre che per brogli inesistenti) anche per un'eventuale (che in realtà non c'è stata) valanga di voti per la CDL in Valle d'Aosta e nella circoscrizione Estero. Si sarebbe detto che il popolo italiano avrebbe voluto premiare il centrodestra ma che, a causa del premio dato nelle sole 19 regioni e non a livello complessivo, l'Unione aveva illegittimamente conquistato la maggioranza dei seggi. Una disputa simile si è peraltro verificata non per l'assegnazione del premio di maggioranza, ma per la semplice e virtuale conquista della prima posizione fra i partiti, nel 2013: sul territorio nazionale ha prevalso il M5S, mentre considerando anche il voto della circoscrizione Estero è arrivato primo il Pd. Questioni di pochissimo conto, che però politicamente si spendono sempre bene. A complicare la situazione, inoltre, c'è il fatto che a livello locale, nazionale e di elezioni europee ci sono competizioni con più di due soggetti politici in lizza (non erano realmente bipartitiche neanche ai tempi del bipolarismo, per la presenza di numerosi partiti coalizzati; tantomeno oggi, in un sistema almeno tripolare e frammentato): ciò è sicuramente positivo per il pluralismo democratico, ma rende più complesso stabilire vinti e vincitori. Anche laddove l'elezione si riduce localmente ad una scelta fra due nomi (elezioni comunali nei centri maggiori, secondo turno) l'individuazione dei "vincitori" a livello nazionale può non essere affatto pacifica. Si veda, a tal proposito, la disputa dello scorso giugno fra gli stessi esperti: l'attribuzione dei sindaci "civici" ad una coalizione o all'altra (o a nessuna) ha portato a riepiloghi corretti (con riferimento ai criteri che ciascuno si era dato, anche se diversi fra loro) ma non collimanti. Ciò ha (involontariamente, da parte degli studiosi) indotto i partiti a far propria l'interpretazione che assegnava loro più comuni vinti. Per comprendere quanto sia difficile attribuire la palma del vincitore (o, meglio, di un vincitore che è di solito tale solo per taluni aspetti) si prendano in considerazione i risultati di lista delle elezioni comunali del giugno scorso nei 64 comuni principali (25 capoluoghi). Possiamo aggregare i dati per lista, per partito (lista ufficiale più liste ufficiose), per coalizione (effettivamente concretizzata in tutte o molte realtà locali o rimasta semplice "area politica") e operare un confronto. Ma quale tipo di confronto? Con le precedenti comunali, oppure con le politiche, le regionali, le europee? Valutando le differenze percentuali o di voti assoluti? Il confronto più adeguato, per omogeneità, dovrebbe essere fatto con lo stesso tipo di elezione (le comunali, in questo caso). Tuttavia, la distanza di tempo dal turno precedente è notevole (cinque anni), se si considera che proprio nel 2012-2013 c'è stato un notevole riposizionamento dell'elettorato italiano (seguito, peraltro, da un altro voto particolare, quello per le europee del 2014) e che fra il 2013 e il 2015 ha avuto luogo una serie di elezioni regionali segnate da una certa discontinuità di voto rispetto alle precedenti. Persino il confronto fra liste non è agevole: alle comunali 2017 il M5S ha guadagnato circa il 3% rispetto alle municipali precedenti, ma in queste ultime non era presente dovunque. Se il risultato non è netto, utilizzare diversi parametri può darci riscontri molto singolari, per esempio per quanto riguarda il Pd, che alle comunali ha un dato percentuale poco superiore (circa 1%) rispetto alle precedenti, ma in valore assoluto inferiore di 30mila unità. Quasi lo stesso vale per il centrodestra: ha ottenuto più comuni del 2012, però le liste hanno guadagnato in percentuale appena lo 0,8%, perdendo tuttavia 49mila voti. Insomma: ha perso, ha vinto, oppure ha pareggiato? Quale parametro conta? In assenza di una progressione netta (come quella della Dc nel '48, o del Pci nel '76, per esempio) in termini di voti, percentuale e seggi, come si può stabilire chi ha vinto davvero? O meglio, come possono fare i mezzi di comunicazione di massa per dare ai propri fruitori un'informazione che rispetti i parametri del "fact checking" e, nel contempo, non entri nella complessità di studi elettorali che devono tener conto di molteplici fattori e non possono - per loro stessa natura - assegnare "bandierine" o medaglie ai partiti? Si tratta di un problema che riguarda lo stesso significato di "vittoria": il Pci del '76 o il Partito laburista inglese del 2017, per esempio, hanno guadagnato rispettivamente il 7,2% (+49 seggi alla Camera dei deputati) e il 9,5% dei voti (+30 seggi alla House of Commons) ma non hanno ottenuto il primo posto. In Italia, è stata la Dc a formare il governo (sia pure con l'astensione anche del Pci), mentre in Gran Bretagna i Conservatori sono riusciti (grazie all'alleanza con un piccolo partito) a confermarsi lasciando i Laburisti all'opposizione. Quindi, se vince chi governa, in Gran Bretagna nel 2017 e in Italia nel 1976 hanno vinto rispettivamente i Conservatori e la Dc; se invece vince chi guadagna più voti rispetto alla volta precedente, hanno vinto i Laburisti e il Pci. Non sempre le cose coincidono, come nel 1948 quando la Dc conquistò voti, seggi e si confermò al governo. Dunque, se il concetto che occorre al "pasto mediatico" post elettorale è così sfumato, complesso, per certi versi ambiguo, quale contributo possono dare gli studiosi che si occupano della materia? E quale può essere il ruolo e il compito della stampa, fermo restando che le forze politiche (facendo il proprio mestiere, peraltro) tenderanno sempre a sottolineare i lati positivi della propria prestazione o quelli negativi dei risultati altrui? Quanto può essere importante, infine, prefigurare a livello mediatico, nelle settimane precedenti al voto, scenari che "obbligano" forze politiche in ascesa a "sovraperformare" per rispettare pronostici troppo lusinghieri (e magari diffusi dagli avversari per ridimensionare il dato che uscirà dalle urne)? In sintesi, fino a che punto conta, nella lettura "pubblica e diffusa" dei risultati, il dato oggettivo e quanto la scelta del parametro di riferimento e la fissazione dell'"asticella della vittoria"?
di Luca Tentoni
di Paolo Pombeni