Ali, mezze ali, centro: i dilemmi della politica
Il nuovo fantasma che si aggira per l’Europa, ma particolarmente in Italia, è suscitato dalle previsioni sul futuro assetto della politica: andremo verso una radicalizzazione bipolare, o risorgerà il bisogno di un ponte moderato fra i due estremi? Non è che il dibattito sia proprio vivacissimo, ma c’è, perché ognuna delle soluzioni ha i suoi fan tra gli intellettuali, che in realtà tifano per sé stessi: quelli che si sono fatti una fortuna sostenendo posizioni “radicali” puntano sul bipolarismo estremo, quelli che si sono barcamenati fra i contendenti di questi anni sperano che risorga uno spazio per i “moderati”.
La questione è un ever green del dibattito politico occidentale. Senza scomodare la vecchia distinzione fra destra e sinistra che non è sempre chiarissimo a cosa si riferisca di preciso, possiamo partire dalla tradizionale dicotomia fra conservazione e progresso. Peraltro una distinzione subito messa in discussione secondo un modello elementare che paragonava la politica ad una macchina, la quale aveva bisogno tanto di un motore che la mandasse avanti quanto di un apparato frenante che fermasse la sua corsa quando diventava pericolosa. Si aveva così subito la soluzione equilibrata che risedeva nel favorire in politica una dialettica virtuosa fra conservazione e progresso, ovvero fra i partiti che pretendeva di rappresentarle.
Il problema era se per raggiungere questo fine bastasse appunto il confronto fra due forze contrapposte che si contendevano l’appoggio della pubblica opinione o se fosse opportuno che a garanzia di questa dialettica ci fosse una specifica forza capace di mettere in comunicazione e di spingere al dialogo le due ali dello schieramento.
A questo fine si poteva puntare o sulla presenza accanto ad una versione per così estrema di ognuno dei poli di una sua versione moderata, o sulla presenza di una sola “terza forza” che collocandosi al centro divenisse l’elemento “cardine” del sistema. Del dibattito sulla necessità delle mezze ali o del centro vitale sono pieni i libri di storia delle dottrine, di filosofia politica, di scienza politica, senza che si sia mai raggiunta una qualche uniformità di vedute su ciò che era auspicabile come soluzione ottimale.
Non c’è da stupirsi, perché la vita concreta delle varie forze non è racchiudibile in banali stereotipi, ma presenta una grande varietà di sfaccettature. È dunque vano disquisire su cosa sarebbe da augurarsi ed è meglio affrontare in concreto le singole situazioni storiche.
Nel nostro sistema repubblicano, che per lungo tempo è stato connotato da un “bipartitismo imperfetto”, la questione sembrava essersi sciolta con il venir meno obbligato della famosa conventio ad excludendum del PCI in quanto alternativa di sinistra troppo connessa con l’URSS, potenza che faceva parte di un sistema ostile a quello a cui aderiva il nostro paese. Naturalmente in quella fase c’era anche un problema non piccolo nel considerare la DC come una forza tout court di destra: essa stessa non accettava questa connotazione e di conseguenza si era definita come un partito “di centro”. Sappiamo anche che peraltro veramente “di destra” non voleva essere definito nessuno, salvo chi non aveva problemi a vedersi connesso col fascismo che la destra aveva vampirizzato nel nostro paese. Anzi siamo stati ossessionati a lungo dal tema della mancanza in Italia di una “destra moderna” (o “europea” - o almeno allora si diceva così, oggi quel termine suona troppo ambiguo).
Nel lungo passaggio del ventennio berlusconiano la faccenda si è, a dir poco, complicata. Se da un lato c’è stata una lunga, e talora parossistica rincorsa ad occupare “la sinistra”, ma con un fiorire smodato di fazioni e gruppuscoli, dal lato opposto la geografia è stata più incerta. Forse il partito di Fini aveva poche remore a definirsi di destra (ma “moderna” e con molti caveat), mentre Forza Italia e la Lega si tenevano di fatto alla larga da una definizione impegnativa, limitandosi a definirsi come “avversari della sinistra”. Il tutto venne risolto, da una parte e dall’altra, buttandola nella demonizzazione dello scontro fra berlusconiani e antiberlusconiani.
Oggi il tema è tornato prepotentemente di interesse per la presenza di un governo che si regge sul patto fra due forze che respingono qualsiasi significato ad una loro connotazione come destra e sinistra (che fra il resto non potrebbero stare insieme al governo che per ragioni di salvezza nazionale che qui non si danno). Però sempre più una, la Lega, cavalca un immaginario politico (definirlo ideologia sarebbe fuori luogo) che richiama la destra: tradizione, patria, conservazione. L’altra vira, per quanto in maniera confusa, verso gli orizzonti della post-sinistra: ambientalismo di maniera, individualismo spinto, anti industrialismo, assistenzialismo pubblico.
Il punto di contatto fra le due ali è stato la spartizione delle risorse: un tanto per realizzare misure di nuova destra, un tanto per realizzare misure di post-sinistra. Dove manca la possibilità di fare a mezzo ciascuno rivendica le proprie priorità rimandando le decisioni a tempi successivi.
È a questo punto che si sente tornare in scena la domanda di un sistema equilibratore di questo modo di gestire la cosa pubblica, perché è facile capire che nulla di buono può venire da un simile stile di azione. Allora ecco invocare il ritorno di un “centro” o di una disaggregazione delle due forze principali che possa portare al formarsi di due “mezze ali” moderate. La speranza, ma meglio sarebbe dire l’illusione, è che così si accenda una possibilità di drenare elettoralmente consensi che indebolendo le “estreme” salvi il paese dall’essere vittima della loro politica di spartizione delle spoglie.
Però è, per dirla con un vecchio linguaggio, più un “ragionamento” che una analisi delle possibilità messe in campo dal quadro politico attuale.
di Paolo Pombeni
di Gianpaolo Rossini