2018: un primo bilancio del voto
Le elezioni del 4 marzo hanno profondamente mutato i rapporti di forza fra i partiti, ma soprattutto hanno dimostrato che nessuna posizione acquisita è destinata a restare immutabile nel tempo. La volatilità elettorale è stata, in una prima e parziale stima, non inferiore al 27% degli elettori, con scambi fra i poli di almeno il 15% dei voti. I due partiti (Pd e Fi-Pdl) che nel 2008 avevano il 70,6% dei consensi alla Camera e che nel 2013 erano scesi al 47%, sono ora al 33%. I saldi delle coalizioni - nonostante il crollo di Pd e Fi - sono resi meno pesanti dal risultato degli alleati: nel centrosinistra la lista Bonino (pur non raggiungendo il 3%) permette di contenere la flessione a 1,6 milioni (il Pd ne perde 2,6), mentre nel centrodestra ai 2,8 milioni di consensi persi dagli "azzurri" fanno da contrappeso i 4,2 guadagnati dalla Lega e i cinquecentomila in più conquistati da FdI, per un saldo finale positivo per 1,9 milioni. È stata - quella del 2018 - un'elezione di "rimescolamento". L'indice di bipartitismo sembra fermo (passa dal 51% del 2013 al 51,4%) però, in realtà, non vede più due partiti praticamente alla pari come cinque anni fa (divisi da uno 0,1%) ma il M5S che distacca il Pd di ben 4,5 milioni di voti e circa 14 punti percentuali. Nel centrodestra, il partito di Berlusconi (Pdl-Fi) che cinque anni fa aveva il 21,6% contro il 7,6% degli alleati (Lega, FdI, Destra, altri), quindi il 74% dei consensi dell'intera coalizione, oggi ha il 14% contro il 23% degli altri: solo il 38% dei 10 milioni di voti raccolti dall'ex CDL nel 2018. Per la prima volta, Berlusconi non è più l'azionista di maggioranza della sua coalizione. Dal canto suo, il Pd ha rischiato di perdere persino il secondo posto fra i partiti italiani, riuscendo a distanziare di 1,3 punti percentuali una Lega che mai era stata così forte nella sua storia. La crisi del Pd e del centrosinistra è stata "certificata" da un comunicato dell'Istituto Cattaneo, nel quale si legge che "con il voto del 2018 si assiste per la prima volta a due fenomeni che segnalano la definitiva scomparsa del monopolio del centrosinistra nella zona rossa: 1) nel complesso delle quattro regioni (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche) il primo partito è il M5S; 2) la coalizione di centrodestra supera per la prima volta la coalizione di centrosinistra". Col 2018, spiegano i ricercatori del Cattaneo, "viene definitivamente meno la caratterizzazione monocromatica delle regioni rosse e si delinea uno scenario multicolore dove prevale la contendibilità del voto e l'imprevedibilità degli esiti elettorali", mentre al centronord e al centrosud risultano prevalenti rispettivamente la coalizione di centrodestra e il M5S. La misura del sommovimento elettorale è data anche da un fatto del tutto eccezionale: per la prima volta, due partiti (Lega, M5s) guadagnano più del 6% sul loro precedente risultato e altri due perdono più del 6% (Fi-Pdl, Pd). Paradossalmente, è Forza Italia ad accusare la maggiore flessione fra i due sconfitti, lasciando sul terreno il 7,4% dei voti (2,8 milioni) rispetto al Pdl del 2013; il Pd, invece, perde il 6,7% (2,6 milioni). Il Cavaliere, tuttavia, si trova nella contraddittoria posizione di maggior perdente e di azionista (sia pur di minoranza, come si è detto) della coalizione che ha avuto la maggioranza relativa dei seggi alla Camera e al Senato. Ironia della storia: Berlusconi, sconfitto nel 2013, quando aveva ancora il 21% dei voti, è "vittorioso" oggi col 14%, perchè è tornato ad avere - in "multiproprietà" - il polo più forte in Parlamento. Altrettanto eclatanti sono i dati dei partiti che hanno guadagnato più voti. La Lega (+13,4%) ha pressoché lo stesso progresso percentuale realizzato dalla Dc nel fatidico 1948 (rispetto ai dati del 1946), mentre il M5S, col suo +7,1%, si avvicina molto al progresso ottenuto dal Pci nell'altrettanto fatidico 1976. In questo quadro scompare il centro: mentre nel 2013 la coalizione montiana aveva conseguito il 10,6%, oggi abbiamo l'1,3% di Noi con l'Italia-Udc (centrodestra) e lo 0,5% di Civica popolare-Lorenzin (centrosinistra) che totalizzano complessivamente 605 mila voti (che diventerebbero 740 mila se aggiungessimo quelli della Svp) contro i 3,6 milioni ottenuti nel 2018 dalla coalizione Sc-Udc-Fli. La partecipazione al voto, inoltre, ha accorciato le distanze fra Nord e Sud. Il crollo dei votanti si è tramutato in una flessione contenuta (-2,3%) e differenziata: più marcata al Centronord e soprattutto nelle ex zone rosse, quasi nulla al Sud (-0,6%; ma in Campania, Calabria e Basilicata la quota di votanti è aumentata rispetto al 2013). È la dimostrazione che la battaglia per la conquista dei delusi è stata vinta in primo luogo al Sud dal M5S e in seconda battuta al Nord dalla Lega (mentre flussi in uscita dal Pd hanno alimentato l'astensione). Non è un caso che (secondo Swg) circa il 30% dei voti leghisti (circa 1,7 milioni, dunque) e il 20% di quelli pentastellati (2,1 milioni) venga da italiani che nel 2013 non erano andati a votare. Nell'eterna disputa col "non voto", insomma, i partiti vincitori delle elezioni 2018 hanno avuto la meglio, mentre gli sconfitti (soprattutto il Pd) hanno ceduto verso l'astensione. Una delle chiavi di lettura del risultato del 2018 riguarda la situazione economica: secondo Tecnè, il primo partito (col 29%) fra chi è ottimista sul futuro dell'economia italiana è il Pd, mentre il M5S ha il 33% (e il primato) fra chi si dichiara pessimista. Nell'elettorato leghista, invece, questa distinzione non sembra avere grande influenza. Così, vediamo che - di fronte alla richiesta fatta da Tecnè di indicare il principale problema del Paese - il 35% di chi ha risposto "la mancanza di lavoro" ha votato M5S (Lega 16%), mentre il 41% di chi ha indicato sicurezza e immigrazione ha scelto la Lega (M5S 21%). Qui si spiega la divisione fra le "due Italie" (i confini fra le quali sono compresi fra la "linea gotica" e la "linea Gustav") uscite dal voto del 4 marzo. Il differente comportamento elettorale delle macroaree riguarda in primo luogo M5S e Lega. I Cinquestelle, nel Centronord, guadagnano voti dal Pd 2013 ma ne cedono all'incirca altrettanti al Carroccio, mentre al Sud il M5s guadagna da tutti e la Lega prevalentemente dall'alleato forzista (ma un pochino anche dal Pd). Il sistema dei partiti, dopo lo scossone del 1992-1994, prosegue la fase di mutamento iniziata nel 2013, che per ora non sembra destinata ad esaurirsi. L'elettore è sempre più disposto a cambiare. Si vedano, fra tutte, le vicende di tre partiti: 1) Il Pd, passato dal 25,4% delle politiche 2013 al 40,8% delle europee 2014 e sceso oggi al 18,7%; 2) il M5S, che nel 2013 era al 25,5% (estero escluso), ma nel 2014 al 21,2% e oggi al 32,7%; 3) la Lega, al 4,1% nel 2013, al 6,2% l'anno successivo e al 17,4% nel 2018. Sommando le percentuali di Pd, M5S, FI-Pdl e Lega, si ha: 2013, 76,6%; 2014, 85%; 2018, 82,8%. A dimostrazione del fatto che le altre forze hanno un ruolo marginale e che la competizione - con alterne fortune - è stata sempre fra questi quattro soggetti politici, ognuno dei quali ha un suo profilo peculiare e un posizionamento che - in circostanze diverse - sono stati premiati o puniti dall'elettorato.
di Luca Tentoni
di Donatella Campus *