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2013-2018: di nuovo al punto di partenza?

Luca Tentoni - 13.01.2018
Elezioni marzo 2018

Può sembrare paradossale, ma probabilmente il 4 marzo avremo meno partiti in lizza che nel 2013. Il conteggio, ovviamente, riguarda tutti quelli coalizzati e quelli che, pur non avendo seggi, possono aspirare a raggiungere fra lo 0,2 e l'1% dei voti. La scorsa volta furono 22 più la lista "Amnistia, giustizia e libertà" di Marco Pannella (ferma allo 0,19%). Stavolta potrebbero essere 14 o 15: il M5S; quelli della coalizione di centrosinistra [nel 2013 erano quattro: Pd, Sel, Cd e Svp; stavolta potrebbero essere cinque: Pd, Insieme (socialisti-verdi), Più Europa (Bonino), Civica popolare (Lorenzin)]; quelli di centrodestra [nel 2013 ben otto liste: Pdl, Lega Nord, Fratelli d'Italia, Destra, Grande Sud-Mpa, Mir, Pensionati, Intesa popolare, Liberi per un'Italia equa; nel 2018 saranno di certo quattro - FI, Lega, FdI e Noi con l'Italia - ai quali potrebbero aggiungersene tre (animalisti, Energie per l'Italia e Rinascimento)]; Liberi e Uguali (al posto di Sel ma fuori dal centrosinistra, come a suo tempo Rivoluzione civile); un partito comunista; Forza nuova; Casapound. Rispetto alla scorsa volta mancano i centristi (Scelta civica, Udc e Fli si sono scissi e ricomposti altrove) e Fare per fermare il declino (Giannino). Nonostante questa ricchezza di simboli e sigle, furono "soltanto" dieci i partiti entrati alla Camera (quattro dei quali, però – Cd, Svp, FdI, Udc - con meno di 15 seggi). Da 23 in lista (più i partiti pulviscolari non coalizzati), a 10 in Parlamento e sei oltre i quindici seggi: una notevole scrematura. Stavolta ne avremo probabilmente sette - il M5S, il Pd, Svp, FI, la Lega, FdI e LeU - più eventualmente uno o due fra quelli del centrosinistra e uno dei piccoli di centrodestra, quindi all'incirca gli stessi della scorsa volta. È facile pensare che anche in questa occasione avremo sei-sette gruppi con almeno 15 seggi. Nel 2013 ve ne furono solo tre con un centinaio di deputati (Pd 292, Pdl 97, M5S 106) che dovrebbero aumentare almeno di un'unità (con la Lega, si presume). Inoltre, a livello di voti, i quattro partiti più votati (Pd, M5S, Scelta civica, Pdl) ebbero l'80,85% dei consensi. Oggi i sondaggi stimano che gli stessi gruppi (con la Lega al posto di Sc) raggiungano complessivamente una percentuale analoga. Il sistema elettorale potrebbe fare la differenza, perché stavolta non c'è il premio di maggioranza (però ci sono i collegi, dove chi arriva al primo posto prende il seggio), ma forse è l'offerta politica che deve e può farla. La varietà di proposte non manca, però - se nel 2013 ci si contenne un po' con la generosità delle promesse elettorali, essendo nel pieno di una gravissima contingenza economica - stavolta il monito di Mattarella a proporre programmi credibili e (economicamente, si sottintende) sostenibili sembra caduto nel vuoto. Forse sullo sfondo molti vedono la possibilità di nuove elezioni a giugno o a settembre, quindi cercano di massimizzare il risultato ora per proporsi meglio nella prossima campagna elettorale, oppure cercano semplicemente - com'è normale, peraltro - di ottenere il maggior numero di voti per poter pesare nella (difficile, se non impossibile) trattativa per formare un nuovo governo. Così, sebbene l'elettore voti per un partito e un programma preciso, finirà, nel migliore dei casi, a vederselo annacquato da un'intesa di (larga) maggioranza; nel peggiore, pur in caso di vittoria, a constatare che la realtà non sempre coincide con i desideri e le compatibilità di bilancio. Così, andiamo a votare con un "supermercato elettorale" appena un po' meno ricco di confezioni rispetto al 2013, ma con la prospettiva (che in questo periodo, cinque anni fa, nessuno avvertiva o poteva prevedere) di trovarci alla fine col (“famigerato”) sacchetto della spesa vuoto, o comunque insufficiente per mettere insieme una maggioranza "edibile".